Khalifa Haftar (foto LaPResse)

Cosa dice in arabo Haftar su Italia, Russia, bombe americane…

Daniele Raineri
Il comandante dell’est della Libia ascolta molto Mosca e il Cairo. E Parigi? “Un alleato soltanto da poco tempo”

Roma. In questo momento l’uomo più importante della Libia è il maresciallo di campo Khalifa Haftar – era generale, è stato promosso la settimana scorsa – perché comanda di fatto l’est del paese e perché sta sfidando l’ovest, controllato dal governo di Tripoli. Nelle ultime due settimane ha rilasciato due interviste in arabo che sono significative già a partire dai media scelti: uno è Sputnik, un’agenzia di stato russa che segue con fedeltà il punto di vista del governo di Mosca e pubblica in tante lingue straniere, l’altro è al Ahram, giornale di stato dell’Egitto. Ecco che cosa ha detto.

 

Il grande amico russo. Haftar identifica in modo chiarissimo i suoi due grandi sponsor internazionali: la Russia di Vladimir Putin e l’Egitto del presidente Abdel Fattah al Sisi. Parla della sua visita a Mosca e racconta di avere incontrato Nikolai Patrushev, ex capo dell’intelligence russa (Fsb) poi diventato consigliere per la Sicurezza di Putin, considerato l’architetto delle operazioni militari in Siria e delle complesse alleanze con l’Iran e con il presidente siriano Bashar el Assad. Haftar a Mosca ha anche incontrato il capo della Difesa, il generale Sergei Shoigu, e il diplomatico russo più accreditato nel mondo arabo, il viceministro degli Esteri Mikhail Bogdanov. In pratica, Haftar ha parlato con il team russo che si occupa della Siria e in generale del medio oriente, lo stesso team che ha interesse a replicare il modello “Mosca-Damasco” in Libia. Il maresciallo di campo definisce Mosca “il principale nemico del terrorismo” e apprezza la posizione della Russia a proposito della rivalità tra Bengasi e Tripoli, perché non riconosce il Consiglio presidenziale, ovvero il paragoverno di Tripoli guidato dal primo ministro designato Fayez al Serraj.

 


 

 

E la Francia? “Un alleato soltanto da poco tempo e soltanto per quel che riguarda la minaccia del terrorismo”.

 

L’operazione per liberare Sirte. Haftar liquida gli sforzi militari conosciuti come operazione Banyan al marsous – che in arabo vuol dire “L’edificio dalle fondamenta solide” – per liberare Sirte dallo Stato islamico come “una goccia nel mare rispetto a quello che abbiamo fatto a Bengasi”. Perlomeno ingeneroso, considerato che i battaglioni di Misurata impegnati da quattro mesi nella liberazione di Sirte hanno perso circa seicento uomini. Ma sono legati al governo di Tripoli, e quindi sarebbe strano se Haftar si congratulasse con loro.

 

L’America pensa ai fatti suoi. Haftar sostiene che l’accordo tra il governo di Tripoli e il governo americano che ha aperto la strada alla campagna aerea contro lo Stato islamico assediato a Sirte sia essenzialmente una sceneggiata. Sì, c’è stata una richiesta da parte di Tripoli, ma se non ci fosse stata sarebbe lo stesso, l’America colpisce lo Stato islamico anche in Libia perché è una minaccia alla propria sicurezza, non perché vuole aiutare o legittimare Serraj. Tanto è vero, dice Haftar, che il bombardamento americano che a febbraio spazzò via una base dello Stato islamico a Sabratha, nell’ovest vicino alla capitale, arrivò a sorpresa e senza accordi con il governo di Tripoli (all’epoca Serraj non era ancora arrivato). Il maresciallo di campo che per vent’anni ha vissuto da esule in Virginia vicino Langley, la sede centrale della Cia, oggi nota che i bombardamenti americani su Sirte sono illegali dal punto di vista delle norme internazionali perché non sono stati autorizzati dal Consiglio di sicurezza. “Non riceviamo alcun aiuto dall’America, non armi, oppure intelligence: nulla”.

 

Freddezza con l’Italia. Cosa pensa dell’eventuale partecipazione dell’Italia a un’operazione antiterrorismo in Libia? Haftar dice di non contare su aiuti esterni, ma soltanto su Dio, i suoi soldati e la gente libica – così, tanto per inserire un elemento di distacco. Poi dice: “Dal momento che il terrorismo è un problema globale che colpisce tutti gli esseri umani, accogliamo con favore la partecipazione dell’Italia, o del Brasile, del Congo o delle Filippine e di qualsiasi paese che voglia aiutarci contro il flagello del terrorismo”. Di nuovo, molto distacco. E poi ricorda che c’è una precondizione inaggirabile: la fine dell’embargo sulle armi. Haftar dice che è un miracolo che i suoi soldati siano riusciti a sradicare le fazioni islamiste – incluso un contingente dello Stato islamico – da Bengasi, in trenta mesi di combattimenti, senza ricevere armi dall’estero. Il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, ha detto questa settimana che è necessario trattare con Haftar, ma il militare non sembra molto aperto alle istanze occidentali e rifiuta di incontrare Martin Kobler, inviato speciale dell’Onu per la Libia: “Voleva parlare con me della struttura dell’esercito libico, ma che c’entra lui?”.

 

L’Egitto. Haftar ha toni speciali per l’Egitto governato da Abdel Fattah al Sisi, parla di un rapporto di fratellanza tra egiziani e libici (propone anche di vendere il petrolio libico all’Egitto in valuta egiziana, per sostenerne il valore, che è sempre un po’ depresso). Il Cairo è il grande alleato e protettore da ascoltare sempre. A proposito di Fratellanza, quella musulmana in Egitto è il grande nemico di al Sisi, e la Fratellanza libica? “Consideriamo qualsiasi organizzazione politica con un braccio armato come un gruppo illegale e terroristico”.

 

Greggio e combattenti stranieri. Haftar dice che l’occupazione dei terminal di greggio più grandi da parte delle sue truppe è una semplice operazione di protezione delle risorse del paese, dopo che le perdite per le mancate esportazioni hanno raggiunto i cento miliardi di dollari. Ci sono stranieri che combattono per Haftar? “Nessuno. Ci avvaliamo soltanto di qualche esperto straniero che ci fornisce consigli in campo militare”.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)