Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (LaPresse)

Quei liberali turchi che chiudono un occhio sul sultanato di Erdogan

Tommaso Alberini
Ad Ankara prevale il j'accuse contro l'occidente, reo di "non capire" come stanno le cose. Le poche voci critiche sul presidente, vogliono restare anonime.

C’è del vittimismo nelle cronache turche del dopo (mancato) golpe, anche se non nei confronti del presidente Recep Tayyp Erdogan, come ci si aspetterebbe, ma verso l’occidente. E’ di nuovo colpa nostra, dicono: non capiamo la situazione, ci accusano, e informandoci tramite i media mainstream – in larga parte gulenisti – fomenteremmo il pregiudizio anti Erdogan che ci pervade già in partenza. Anche su Facebook e nelle varie agorà social le opinioni sono polarizzate: twittaroli occidentali contro twittaroli turchi, gli uni anti e gli altri pro Erdogan. Non è una questione di condanna o meno del fallitto golpe del 15 luglio, tutti sono concordi nel riconoscerne la gravità, ma mentre la giustizia à l’occidentale vorrebbe che fossero le sentenze dei giudici a individuare i colpevoli, in Turchia sembra legittimo, per l’esecutivo, farsi giustizia da sé.

 

Un commentatore politico turco, che per ragioni di sicurezza ci ha chiesto di rimanere anonimo, parlando col Foglio fa notare come nella retorica del presidente-sultano si faccia spesso riferimento all’“armonia dei poteri” piuttosto che alla loro separazione, come vorrebbe invece il principio teorizzato da Montesquieu su cui da quasi due secoli si reggono le democrazie occidentali. Risiede proprio in questo il rischio insito nell’eventuale trasformazione della Turchia in repubblica presidenziale, riforma su cui Erdogan fa pressione da tempo. “Tra il 2002 e il 2012 Erdgoan non ha mai usato riferimenti islamisti, presentandosi invece come un semplice conservatore di stampo europeo: all’epoca le forze militari, storico simbolo del kemalismo laicista, erano ancora piuttosto potenti e controbilanciavano ogni eventuale deriva religiosa dell’esecutivo”. Inizialmente il nostro interlocutore ha sostenuto Erdogan nella sua battaglia “blu” contro il paternalismo della burocrazia che, a suo dire, interveniva eccessivamente nella politica del paese, impedendone l’ammodernamento. Dalle elezioni del 2011 in poi, tuttavia, quando è stato riconfermato primo ministro, “Erdogan ha scelto di allontanarsi dalla democrazia”. Ha riaperto le ostilità verso il Pkk con cui aveva iniziato trattative di riconciliazione, ha favorito lo sviluppo di un capitalismo clientelare e opaco dopo aver implementato alcune riforme pro mercato e sopratutto ha avviato l’islamizzazione della società turca attraverso l’uso di risorse pubbliche. Ha tradito le sue ambizioni di sultano, pur cercando di rimanere vestito di blu, “e tutto questo, per un liberale come me, è inaccettabile”. Dell’affaire turco, però, quel che sorprende più d’ogni altra cosa è forse la tolleranza – quando non condiscendenza – con cui la società civile sta affrontando le reazioni del governo (leggi sultanato) nei confronti dei sospetti golpisti, in barba a qualsiasi principio minimo di garantismo: non sono in tanti, quelli seduti nella stanza dell’ostilità governativa. Sorprende anche, tra le altre cose, che un’associazione come l’Alt - Alliance for Liberal Thinking, importante fondazione liberale con sede ad Ankara, stenti a prendere una posizione di condanna ferma nei confronti di un governo così evidentemente autocratico: anzi.

 

Ozlem Caglar Yilmaz, coordinatrice generale di Alt, raggiunta dal Foglio ha confermato l’atteggiamento generalizzato turco del “voi non ci capite”, provando a spiegarci perchè. “Erdogan ha sfidato il potere secolare della nostra burocrazia di stato: per questo si sta facendo propaganda contro di lui come se stesse tentando di istituire una repubblica islamica autoritaria. E’ piuttosto buffo che lo si accusi di essere un simil-dittatore, dal momento che nei confronti delle èlite più potenti del paese ha sempre avuto un atteggiamento ostile, iniziando a scalfire i loro privilegi attraverso riforme del mercato in senso liberale e pluralista”. Questo è un must delle arringhe turche in difesa di Erdogan: negli anni 80 e 90 il Partito della madrepatria di Turgut Özal, a oggi il presidente più amato della storia turca dopo l’eroe nazionale Kemal Atatürk, ha introdotto significative riforme economiche nel paese, liberalizzando il mercato interno e avviando la richiesta di adesione alla Comunità europea. Poi nel 1993, ancora in carica, Özal è morto improvvisamente, “nel sospetto generale che fosse stato assassinato”, aggiunge la Caglar Yilmaz. Da allora il Partito della madrepatria è entrato in un declino di consensi che ne ha determinato lo scioglimento nel 2009. Nel frattempo, il neonato Akp, cioè il Partito per la giustizia e lo sviluppo di Erdogan, ha fatto proprie le istanze liberiste (almeno sulla carta) del Partito della madrepatria, coniugandole a una “maggiore libertà d’espressione”, o “laicità meno rigida”, quando non “reazionarismo islamista”, a seconda di chi parla.

 

Ecco perchè oggi l’Akp ha il sostegno di quella classe media istruita che si è formata sotto il piglio innovatore di Özal negli ultimi trent’anni, e di cui Erdogan vorrebbe invocare l’eredità ideologica. Il nostro anonimo interlocuotre ci spiega che, in realtà, questo ceto medio istruito sostenitore di Erdogan avrebbe barattato molte delle sue libertà col benessere derivato dalle politiche pro-business (si badi, non “pro-mercato”) dell’Akp. Tra il 2002 e il 2012, in effetti, il pil turco è più che triplicato grazie all’apertura verso i mercati internazionali: la crescita sostenuta da spese in deficit da un lato e parziali liberalizzazioni dall’altro, affiancate da grandi programmi di assistenza sociale, hanno spianato il cammino all’acclamazione popolare di Erdogan, tanto da spingere 161 persone a “morire per la patria” la notte del golpe. La coordinatrice di Alt insiste però che è tutta una questione di ritratto mediatico, che la stampa “gulenista”, tra cui spiccano i giornali Zaman e Bugun, ha sempre agito più che altro come un apparato d’intelligence: ecco il perchè degli arresti dei “sedicenti giornalisti”. “Provenendo dai ceti più abbienti e istruiti, i gulenisti hanno da sempre molti contatti con l’estero, perchè parlano meglio inglese e hanno frequentato scuole e università internazionali”, riuscendo così a infiltrarsi nelle istituzioni europee e nei gruppi di pressione statunitensi.

 

Il risultato dei gulenisti infiltrati nei centri di potere occidentali e il tentativo di espugnazione, da parte di Erdogan, di quelli infiltrati nei centri di potere turchi sarebbe che la sua immagine proiettata all’estero è quella di un presidente autoritario e islamista, quando invece “l’unico aspetto” criticabile delle sue politiche è la flebilità del suo liberismo antiburocratico, ragiona Caglar Yilmaz. Tralasciamo allora l’avvicinamento a Vladimir Putin in evidente chiave anti occidentale, ma solo perchè l’Economist l’ha definita una strategia more bark than bite: più un abbaiare che un mordere. “Nonostante le riforme dell’Akp che hanno reso più competitivo il mercato e fatto crescere l’economia, abbiamo ancora un sistema economico piuttosto corporativo, in larga parte in mano agli ordini professionali, alle camere di commercio e ai sindacati. Servono riforme più incisive, bisogna abolire tutte queste regolamentazioni e ristrutturare il sistema”.

 

Si accontenta di poco Caglar Yilmaz: una spruzzata di liberismo e su tutto il resto orecchie da mercante. Che a voler esser puntigliosi si potrebbe rispolverare la famigerata diatriba Croce-Einaudi, e ribadire tranquillamente che aveva ragione il secondo, che non c’è liberalismo senza liberismo e che è vero anche il contrario. L’anonimo interlocutore è d’accordo. E infatti, pur venendo anche lui da ambienti liberali come la coordinatrice di Alt, ha idee nettamente antigovernative. “Erdogan ha una visione maggioritaria della democrazia”, ci spiega, “non è affatto favorevole al costituzionalismo liberal-democratico inteso alla occidentale. Enfatizza costantemente il volere nazionale, sostenendo che non dovrebbe incontrare limiti di alcun tipo”. Un esempio su tutti? I suoi exploit sulla reintroduzione della pena di morte.