Messico, Enrique Pena in conferenza con Donald Trump (foto LaPresse)

Muro contro muro

In Messico Trump triangola con Peña per moderare le sue posizioni

Il blitz messicano restaura l’immagine del gran negoziatore e leviga alcune idee più estreme sull’immigrazione

New York. Poche ore prima di pronunciare l’atteso discorso sull’immigrazione in Arizona, Donald Trump è volato a Città del Messico per incontrare il presidente messicano, Enrique Peña Nieto, il quale di recente ha invitato entrambi i candidati alla Casa Bianca a fargli visita per dialogare in forma privata dei rapporti, non proprio idilliaci, fra i due confinanti.

 

Nel fine settimana i consiglieri di Trump hanno lavorato senza sosta per creare le condizioni, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza, per un’ardita visita che Trump aveva già deciso di fare, facendo affidamento sul proverbiale istinto che è la bussola delle sue scelte politiche. E’ stato lui stesso ad annunciare il viaggio con un tweet stranamente asciutto e professionale in cui diceva di “attendere l’incontro con il presidente messicano”, ovvero con l’uomo che durante la campagna elettorale lo ha paragonato a Mussolini e Hitler, rifiutandosi poi, con latina ostinazione, di ritirare gli accostamenti. Si tratta dell’ennesima manovra criptica e contraddittoria di un candidato che ha fatto della contraddizione sistematica il tratto distintivo del suo operare. Il rapporto con il Messico occupa una parte enorme dell’immaginario di un candidato che ha fatto del muro sul confine meridionale il correlativo oggettivo della sua visione del mondo. Ha chiamato i messicani che vengono negli Stati Uniti “stupratori”, ha detto che portano droga, violenza, instabilità, s’impossessano di vite e posti di lavoro degli americani onesti depressi dalla stagnazione. L’uomo nero delle fiabe di Trump non è soltanto il leader di un cartello del narcotraffico ma anche il clandestino lavapiatti che succhia linfa al mercato del lavoro autoctono. “Ci saranno anche messicani buoni”, dice Trump, ma non sono quelli che disperatamente tentano di entrare negli Stati Uniti. Oltre al muro, che com’è noto Trump vuole far pagare al Messico, c’è la questione del rimpatrio degli undici milioni di clandestini che ha a lungo promesso, ma nelle ultime settimane la questione sta scricchiolando, e il candidato sta valutando se e a quali condizioni potrebbe rivedere in senso moderato un’idea che suscita enormi problemi politici e insormontabili problemi di fattibilità per uno stato di diritto.

 

E’ su questo sfondo politico che va letto il blitz messicano di Trump. Appena uscita la notizia, l’ex presidente, Vicente Fox, ha definito l’incontro un “errore storico” e ha detto che il candidato “dovrebbe chiedere perdono in ginocchio” per tutti gli insulti rivolti al suo popolo, incassando l’immediata replica dell’interessato: “Anche l’ex presidente Vicente Fox, che ora è contro la mia visita in Messico, mi aveva invitato quando ha chiesto scusa per la f-bomb”, dove f-bomb è il riferimento a quella volta in cui aveva giurato che il suo paese non avrebbe pagato la costruzione del “fucking wall”.

 

Il fatto è che i sondaggi di Peña sono perfino peggiori di quelli di Trump e di Hillary, e si tratta di un’impresa notevole se si considera, ad esempio, che l’ultimo sondaggio di Washington Post e Abc dice che il 56 per cento degli americani ha una pessima opinione della candidata democratica. Il gradimento di Peña è dato attorno al 23 per cento, cosa che fa di lui il presidente meno amato degli ultimi trent’anni, e nel suo entourage l’idea di giocare d’anticipo per aprire un dialogo con il prossimo leader del mondo libero è vista come un’iniezione di legittimità. A quel punto era inevitabile che l’invito dovesse essere esteso anche all’antagonista Trump, che è un candidato legittimato dal voto popolare nonché uno degli uomini più disprezzati del Messico, luogo dove pure produce gli abiti che portano il suo nome. Trump, che non è un ideologo ma un artista del “deal”, un sedicente maestro degli affari che promette di sedersi a tutti i tavoli della diplomazia globale e di alzarsi con un accordo vantaggioso per l’America, ha colto così l’opportunità di mostrarsi aperto alla trattativa, in un momento della campagna in cui ha bisogno di smussare gli angoli più acuti del suo messaggio.

 

Che l’invito sia partito dalla residenza di Los Pinos, e non dalla Trump Tower, mette il candidato repubblicano in una posizione favorevole: potrà sempre dire che ha accettato l’invito di un capo di stato che sarebbe stato scortese e irrituale rifiutare, una buona ragione per un candidato poco avvezzo alla diplomazia. Quando il Regno Unito decideva di abbandonare l’Unione europea lui su un campo da golf della Scozia alternava espressioni di soddisfazione politica a dettagliate illustrazioni delle lussuose virtù del suo resort. Al confronto, la missione messicana è l’apoteosi della professionalità. Il messaggio politico che esce dall’operazione è assai più ambiguo, ma l’equivoco è un filo importante di quella trama confusa che è il trumpismo. Se il rischio di una un’apertura al dialogo è deludere la base che ribolle di sentimenti anti immigrazione e giudica il Messico la grande porta attraverso cui tutti i mali del mondo entreranno negli Stati Uniti, l’opportunità per Trump è rivendersi come leader pragmatico in grado di coniugare promesse e realtà.