Sostenitori del movimento jihadista (foto LaPresse)

Né lone wolf né low-tech, il terrore jihadista va oltre le semplificazioni

Riccardo Redaelli
Capire di cosa parliamo per affrontare il problema. Centrali, in questa disfida analitica, sono i termini di “lone wolf”, i lupi solitari, e la recente categoria – avanzata da esperti americani – di “low-tech terrorism”, un sorta di bricolage amatoriale del terrore.

Ridotto ai minimi termini lo scontro è fra chi attribuisce al disagio (o alla pazzia) gli attentati in nome dell’ideologia jihadista e chi, nella follia di questi attacchi, vede soprattutto l’affiliazione ideologica. Sofismi intellettuali che non spostano di una virgola il triste computo dei morti, l’aumentare dell’insicurezza e della polarizzazione in tutte le società multi-identitarie, dirà qualcuno. Al contrario, si tratta di una questione cruciale, dato che una migliore “tassonomia della violenza di massa” (come è stata definita) è fondamentale per l’azione di prevenzione e lotta al terrore jihadista.

 

Centrali, in questa disfida analitica, sono i termini di “lone wolf”, i lupi solitari, e la recente categoria – avanzata da esperti americani – di “low-tech terrorism”, un sorta di bricolage amatoriale del terrore. La prima è stata ampiamente usata a livello ufficiale e comunicativo, probabilmente anche per non allarmare troppo le opinioni pubbliche europee: lupi solitari, con qualche rotella fuori posto o traumatizzati socio-psicologicamente, che subiscono l’effetto mimetico, di imitazione, e colpiscono a caso cittadini inermi. Il pazzo (o il disadattato) della porta accanto, insomma; e che sia musulmano conta relativamente. Gente che si è radicalizzata in fretta e furia sui social e non ha veri legami con cellule terroristiche. Per questa interpretazione, il fattore religioso conta, in conclusione, meno della mancata integrazione sociale e delle cicatrici che le vite ai margini e i drammi personali lasciano sui singoli individui.

 

I sostenitori del “low-tech terrorism” sottolineano le debolezze strutturali di questa prospettiva: da tempo l’Isis ha puntato sulla diffusione di un messaggio ideologico iper-semplificato ma di grande attrattiva, incitando all’azione singoli simpatizzanti e individui non collegati organicamente alle cellule jihadiste più strutturate. Questi militanti, tuttavia, non sono dei cani sciolti, bensì neo-convertiti spinti all’azione immediata da una strategia utile a sfuggire alle maglie delle forze europee di intelligence e di polizia. Continuare a pensare in termini di “lone wolf” sarebbe pertanto un errore pericoloso: al contrario, si deve comprendere la natura minimalista e low tech del terrore post-qaedista, che punta proprio su questa fluidità delle sue nuove, poliformi, leve di seguaci. Il disagio sociale e psicologico, è qui molto meno importante dell’appartenenza e dell’attivismo religioso.

 

Correrò il rischio di sembrare cerchiobottista, ma va detto che in entrambe le interpretazioni vi sono aspetti positivi e negativi; il rischio maggiore è sposare una sola delle due interpretazioni, peggio ancora se semplificate oltremisura: da un lato, è evidente come alcune narrazioni prevalenti in Europa sembrino volutamente dimenticarsi della parola “islam”, quasi che l’attuale terrorismo non crescesse all’interno delle interpretazioni più radicali e dogmatiche della religione islamica. E come se la soluzione fosse solo più integrazione e “più psicologi per tutti”.

 

Ma anche la seconda, che pure ben coglie la capacità postmoderna dello Stato islamico di gestire la comunicazione e adattarsi alle nostre politiche di contrasto, presenta rischi: quelli di sovra-enfatizzare il ruolo e le capacità delle organizzazioni terroristiche e di insistere eccessivamente sulla penetrabilità delle comunità islamiche in quanto tali al messaggio terrorista. La soluzione, tanto cara a settori dell’intelligence e della politica statunitense, sarebbe quella di aumentare a dismisura le capacità degli stati nell’azione di tracciatura dell’azione eversiva, sminuendo le politiche di contro-radicalizzazione e de-radicalizzazione. Con il rischio di esasperare le tensioni fra le comunità religiose e innescare pericolose derive in termini di limitazione (o peggio, violazioni) dei diritti individuali.

 

Bisogna invece cogliere gli aspetti più utili di entrambi i punti di vista: ragionare in termini di rapidità adattiva, liquidità e fluidità tanto delle dottrine jihadiste quanto dei comportamenti quotidiani dei singoli affiliati; comprendere che la religione islamica ha un problema evidentissimo nel rapporto fra violenza, sacro e libertà individuale e non riesce (al momento) a risolverlo. Ma capire anche che la repressione e la prevenzione tramite il lavoro d’intelligence, per quanto fondamentale, sarà sempre fallimentare se non si avviano serie politiche di contro-radicalizzazione, de-radicalizzazione e non si migliora l’integrazione fra le comunità. Che si ottiene non con il multiculturalismo (ognuno fa quello che vuole nel suo cortiletto), ma con l’intercultura. Unica risposta a un’epoca di meticciato come la nostra.