Sostenitori di Trump alla convention repubblicana di Cleveland (foto LaPresse)

Serata di wrestling a Cleveland. Cruz nega l'endorsement a Trump

Tra "buuu" e fischi, la terza giornata della kermesse repubblicana si conclude in modo surreale e indecifrabile. Ma restano alcune certezze.

Dal nostro inviato a Cleveland. La terza giornata della convention del partito repubblicano si può riassumere in tre parole: “Vote your conscience”. Le ha pronunciate Ted Cruz, mettendo in scena un’altra svolta surreale in una kermesse già sfilacciata e indecifrabile: il più fiero avversario di Donald Trump alle primarie non ha dato il suo appoggio al candidato del partito. Non solo. Dopo un discorso d’intonazione apocalittica, tutto orientato a spiegare l’importanza di aderire a principi condivisi del conservatorismo, ha chiesto ai delegati e al popolo conservatore di andare a votare a novembre, ma seguendo la propria coscienza, che in un contesto del genere si traduce pressapoco così: sentitevi pure liberi di non votare Trump,  non tradirete gli ideali repubblicani. Un atto di ribellione a viso aperto che ha raggelato i volti della famiglia Trump schierata sul palchetto. Sulle tre parole decisive della giornata si è consumata una scena a metà fra un incontro di wrestling e la penultima puntata della stagione di una serie tv, quella che complica maledettamente l’intreccio in vista della risoluzione finale. I delegati che ieri hanno consegnato a Trump la nomina hanno preso a gridare “buuuuu”, proprio mentre Cruz diceva “God Bless America” – scena da dramma teatrale – e proprio in quel momento Trump si è materializzato con tempismo da deus ex macchina nel palco di famiglia, suscitando applausi che hanno contrastato la polemica verso il senatore del Texas.

 

C’è mancato poco che nel backstage qualcuno – un finanziatore? un funzionario locale del partito? Non si sa – mettesse le mani addosso al senatore riottoso, e la moglie, Heidi, già bersaglio preferito dei feroci attacchi trumpiani, è stata scorata fuori dall’arena per ragioni di sicurezza. Qualcuno le ha gridato “Goldman Sachs!”. La campagna elettorale di Trump sapeva in anticipo il contenuto del discorso di Cruz, ma anche questa volta la gestione della crisi è stata contraddittoria e pasticciata. Mentre Newt Gingrich spiegava goffamente dal palco che Cruz in realtà intendeva dare il suo endorsement a Trump (classico caso di “vi posso spiegare tutto”), alle televisioni Chris Christie diceva che il discorso è stato “terribile” ed “egoista”. Sono piovute speculazioni a non finire sugli scopi reconditi della manovra – potrebbe essere un antipasto della campagna elettorale del 2020, un po’ come il discorso di Obama nel 2004, ma in questo contesto attribuire una tale capacità di pianificazione agli attori in scena pare un eccesso di zelo – e si è creata una competizione di teorie lineari e complottiste per spiegare come mai Paul Manafort e gli altri uomini di Trump non hanno impedito che il senatore tenesse il discorso. Dopo che le acque si sono calmate, Trump ha attaccato il senatore: “Wow, Ted Cruz è stato fischiato sul palco, non ha onorato il suo patto! Ho visto il discorso due ore prima ma l’ho lasciato parlare lo stesso. Non è un grande problema!”. Messaggio chiaro, ma non esaustivo, anche perché diverse fonti confermano che il texano già due giorni fa aveva detto a Trump che non avrebbe concesso l’endorsement.

 

Per il momento si possono isolare alcune certezze. La prima: alimentare questo tipo di confusione, sobillare interpretazioni contrastanti e muovere furiosamente le variabili dell’equazione, è l’unica costante del modus operandi di Trump. I motivi delle azioni spesso sfuggono, a volte non esistono affatto, e chi cerca un pattern razionale si trova disorientato. La seconda certezza è che Cruz, che di suo gode di ben poche simpatie nell’establishment, è diventato l’idolo dei conservatori anti Trump, ammirati dal coraggio e dalla coerenza di un politico che ha rifiutato inaccettabili ordini di scuderia in nome della coscienza. Si prospettano dividendi politici, o almeno così spera Cruz. La terza certezza è che l’exploit ha oscurato qualunque altro speaker e qualunque altra polemica di una giornata che aveva visto chiudersi – finalmente – la questione sul discorso plagiato di Melania. Il tormentone “America deserves better” di Scott Walker, l’intervento video di Marco Rubio, il mediatore Newt Gingrich e il vicepresidente Mike Pence sono inevitabilmente passati in secondo piano.

 

Pence ha fatto un discorso convincente nei contenuti ed eseguito con il giusto piglio (è stato scelto per moderare Trump, come ha detto lui stesso giocandosi in modo arguto il registro ironico) nel quale è riuscito a camuffare bene il fatto che su qualunque tema la pensa al contrario del candidato alla presidenza. Ha fatto anche un riferimento alla fedeltà incondizionata verso gli alleati, principio messo radicalmente in discussione da Trump in un’intervista al New York Time pubblicata poco prima che iniziasse la serata. Niente di tutto questo poteva distogliere l’attenzione dal nuovo squarcio aperto poco prima da Cruz nel cuore del partito. Per rubare i titoli dei giornali di questa mattina, Pence avrebbe dovuto come minimo annunciare il suo ingresso nel ticket con Hillary Clinton.