La convention repubblicana a Cleveland (foto LaPresse)

Patriottismo securitario e storie di successo: così Trump rassicura e diverte il suo popolo

La convention pro The Donald è un racconto personale multiplo che rifugge dalle proposte concrete: una zoomata strettissima su casi particolari per trascurare volutamente contesto e ambientazione.

Al calare del sole su Cleveland è iniziato lo spettacolo. Il tema della prima giornata, “Make America Safe Again”, già conteneva nel titolo un implicito autogol, visto che la sicurezza in America è aumentata stabilmente negli ultimi decenni, e almeno in questo ambito un ritorno ai vecchi tempi non è auspicabile; ma non c’è nulla di più trumpiano di prendere a legnate la logica e il rigore nel ragionamento. Lo scopo della convention, lo ha detto dall’inizio, è “evitare che la gente si addormenti”, non esporre una piattaforma politica inattaccabile. Durante la serata ospiti fra loro molto diversi hanno interpretato il discorso in modo molto diverso, ma con una logica narrativa comune, che fa leva esclusivamente sull’emotività, sulla capacità di creare una connessione sentimentale con il pubblico. E’ un classico espediente della retorica politica, ma in questo caso non ci si è imbattuti nemmeno per errore in una posizione o in una proposta concreta che andasse al di là del muro quando si tratta di immigrazione e di distruggere il nemico quando si parla di terrorismo.

 


(foto LaPresse)


 

Il registro che è stato scelto è quello della testimonianza personale, dell’esperienza intima, una zoomata strettissima su casi particolari per trascurare volutamente contesto e ambientazione. La vicenda dell’attacco Bengasi è stata raccontata dai familiari delle vittime e dai colleghi dei soldati uccisi, l’apertura all’immigrazione non è stata condannata usando le statistiche ma attraverso le storie di persone ingiustamente uccise da clandestini già indagati e colpevolmente mai puniti da un sistema permissivo e ingiusto.

 

Quando si racconta di un omicida guatemalteco clandestino che finisce per fare soltanto 35 giorni di carcere, la folla prorompe nel “buuuu” più gutturale e rabbioso della serata. Nemmeno Rudolph Giuliani, urlante nella sua foga da “law and order” e minaccioso come non mai quando parlava di terrorismo islamico, è riuscito a toccare tasti tanto potenti. E’ l’esperienza tangibile e singolare quella che si confà all’arte trumpiana della semplificazione. Così ha usato, anche in senso positivo, “success story” come quella dell’attore italoamericano Antonio Sabato, che è stato abbracciato dall’America perché ha seguito le regole. Il piglio etnonazionalista introdotto da Willie Robertson, icona redneck dello show televisivo “Duck Dynasty” con barba, accento della Louisiana e l’orgogliosa triade hunt-fish-pray, è stato ben presto sostituito dal tiro al bersaglio a Hillary Clinton, con sottofondo patriottico. Pat Smith, madre di uno dei soldati uccisi in Libia quando Hillary era segretario di stato, ha attribuito direttamente a lei la colpa della sua morte, e proprio mentre fra i singhiozzi lanciava le accuse Trump si è esibito in un ardito colpo comunicativo: il second screen. La signora Smith diceva che “Trump è tutto quello che Hillary non è”, lui su Fox News attaccava John Kasich.

 


Willie Robertson (foto LaPresse)


 

Il discorso emotivamente più potente è stato quello di Marcus Luttruell, il “lone survivor” messo poi in scena da Mark Whalberg che nell’immaginario repubblicano rappresenta l’epitome del patriota che dà tutto per la nazione. “Passerò i prossimi vent’anni a restituirvi quello che mi avete dato negli ultimi vent’anni”, ha detto, concludendo una performance segnata da efficacissime imperfezioni. Trumpismo allo stato puro. Il generale Michael Flynn ha suggerito di “rinchiudere” Hillary, il candidato al senato Darryl Glenn ha detto che una tuta arancione le donerebbe, le battute su server privati e email segrete si sono sprecate. Il difficile, considerato l’esordio, è immaginare un sequel che regga la carica critica senza trasformarsi in uno spettacolo vietato ai minori.

 


Donald Trump e la moglie Melania (foto LaPresse)


 

The Donald ha presentato la moglie Melania, headliner della serata, sulle note di “We are the Champions” – scelta musicale scevra di ironia – limitandosi a dire quanto l’America vincerà quando sarà presidente. Il messaggio che Melania doveva portare, avvolta in un favoloso abito bianco di quelli che sfoggia nelle solennità politiche, era che il marito è dotato di un cuore che batte, la sua anima non è posticcia quanto i suoi capelli, è un uomo vero e come tale guiderà questo paese benedetto dal cielo. Lei, oratrice incerta ma dotata di una presenza che sa imporsi, aveva fatto la sua parte anche assai meglio di altri speaker, senonché i commenti della notte si sono subito concentrati su due paragrafi del discorso che assomigliavano a un pezzo del discorso pronunciato da Michelle Obama alla convention democratica del 2008. A un esame più attento, la somiglianza si mostra per quello che è, un plagio. Un altra specialità del canone comunicativo di Trump.