Nella convention per “bianchi e vecchi”, gli hipster di Cleveland coltivano l'arte del disimpegno

Nel partito repubblicano l’incapacità di attirare i giovani non è neppure un tema su cui ragionare. Di rottamazione nemmeno a parlarne. Ma il problema è l’intero panorama politico che “ha perso una generazione” lungo la strada.

Lontano dalla convention repubblicana c’è la Cleveland degli hipster, delle start up, delle birre artigianali, delle barbe, degli spazi industriali riconvertiti in atelier, luoghi dove circolano le iconiche magliette: “Mi sono trasferito a Cleveland prima che fosse cool”. Metri quadri a basso costo e stagnazione postindustriale hanno dato alla città che detiene il primato della bancarotta municipale americana (anno 1978, il sindaco era Dennis Kucinich) quel tono detroitiano-berlinese della metropoli povera ma sexy che attira talenti, ma che fanno questi millennial durante i giorni dell’incoronazione di Donald Trump? Alcuni protestano con gli adesivi rosa di Code Pink “make out, not war”, senza considerare che Trump è il candidato del disimpegno internazionale e della militarizzazione come strumento per difendere il beato isolamento americano; altri si autoproclamano “comunisti” e s’assiepano vicino ai cospirazionisti pro Trump. La maggioranza silenziosa con la barba si disinteressa tranquillamente di tutto quello che sta accadendo, comprese le minacce di violenza e le grida allarmate che denunciano il disastro imminente. Gli hipster di Cleveland affinano con cura l’arte del disimpegno.

 

La convention repubblicana è anche il luogo dell’incomunicabilità generazionale, e stringe il cuore vedere Charlie Kirk, attivista conservatore 22enne che vorrebbe aiutare i repubblicani a svecchiarsi, girare per la convention sconfortato dall’analfabetismo digitale e dall’arretratezza tecnologica che lo circonda. Dal palco ha provato a convincere l’uditorio che il partito repubblicano non è soltanto per “i ricchi, vecchi e bianchi”, ma è una voce nel deserto: l’unica altra giovane nella line up degli speaker di cognome fra Trump. Alla fine pure Kirk lo ammette: “Non sono il più grande fan di Trump nel mondo”. E’ pur sempre la campagna in cui Trump è salito sul palco sulle note di “We are the Champions” (e i Queens non l’hanno presa bene, ma questa è un’altra storia) e dove l’incapacità di attirare i giovani non è neppure un tema su cui ragionare. Di rottamazione nemmeno a parlarne. Frank Luntz, sondaggista repubblicano, dice che il problema è più profondo, ed è l’intero panorama politico che “ha perso una generazione” lungo la strada. “Non importa se sei democratico, repubblicano, indipendente o nessuna di queste cose. Il fatto è che il 58 per cento dei millennial dice che il socialismo è una forma economica migliore del capitalismo. E questo è il frutto dell’istruzione universitaria”.