libri israeliani all'Hebrew Book Fair, Gerusalemme (foto zeevveez via Flickr)

“Sionista? Non si stampi!”. Lo strisciante boicottaggio dei romanzi israeliani

Daniel Mosseri
“Liberal o altro, poco importa”, denuncia l’agente Harris.

Berlino. Parte da Israele ma passa dagli Stati Uniti per essere raccontata. E’ la storia vergognosa di un boicottaggio intellettuale o, meglio, di un boicottaggio di una serie di intellettuali israeliani. In particolare quelli rappresentati da Deborah Harris, una donna colpevole di fare molto bene il suo lavoro. Americana di nascita, dopo alcune esperienze nell’editoria a New York, nel 1979 Deborah si trasferisce a Gerusalemme. Qui fonda The Domino Press ma in breve si rende conto di funzionare meglio come agente che come editrice, per cui dà vita alla Deborah Harris Agency. Il lavoro la porta per 20 anni nel cda della Fiera internazionale del libro di Gerusalemme e a fondare il Jerusalem Film and Television Fund. “Per lei non si tratta solo di un business”, racconta al Foglio uno dei suoi autori che preferisce restare anonimo, “ma il suo è un vero e proprio amore per la letteratura d’Israele”. Nella scuderia di Deborah ci sono molti fra i più importanti scrittori d’Israele: romanzieri, scienziati, saggisti, politici. La sua agenzia include David Grossman, Meir Shalev e Tom Segev, “e la maggior parte di quello che viene letto in Europa o in America passa dalle sue mani”. Fra i suoi titoli c’è anche “Sapiens”, l’acclamato bestseller di Yuval Harari sulla storia dell’umanità, un libro tradotto in trenta lingue.

 

Il lavoro di Deborah è di alta qualità così come i curricula dei suoi collaboratori scelti fra i laureati a Harvard, alla Johns Hopkins o a Cambridge. Eppure negli ultimi dieci anni l’agente “ha scoperto che alcuni editori internazionali rifiutano le opere di autori israeliani, boicottano gli eventi letterari legati a Israele o rifiutano di far tradurre in ebraico i loro libri”. E’ la testimonianza di David Wolpe, autore del Time e amico personale di Deborah. Secondo Wolpe, “parte della dolorosa ironia di questo sabotaggio è che il posizionamento politico dell’autore è del tutto irrilevante”. Agli stampatori epigoni del Bds, il movimento per il boicottaggio di Israele in ogni sua manifestazione politica, socio-economica o culturale, non interessa che la Deborah Harris Agency rappresenti Grossman – apprezzato in Europa per le sue critiche contro i governi del suo paese –, o Avraham Burg, un politico che nel 2015 ha lasciato il Partito laburista per unirsi a Hadash, formazione comunista araba ed ebraica “per la pace e l’uguaglianza”. Per i professionisti dell’antisionismo non è rilevante: la sola etichetta di israeliano ti rende degno del loro odio a 360 gradi. Pacifisti, accademici, letterati, attivisti lgbt che proteggono gli omosessuali palestinesi: sono tutti equiparati ai dirigenti bianchi del Sudafrica ai tempi dell’apartheid.

 

“Mi rifiutano con gentilezza titoli che solo dieci anni fa sarei riuscita a vendere facilmente a grandi editori – dice la Harris al Time – Alcuni mercati internazionali nel settore della fiction sono in flessione, è vero, ma il crollo della letteratura israeliana è più che proporzionale”. “E’ una brutta sensazione”, conferma l’autore rappresentato da Deborah, “a me non risulta che un autore abbia mai respinto un manoscritto turco o cinese, ma ormai la diffamazione a mezzo stampa di Israele è la regola in occidente”. A occidente ma non solo. Da alcuni mesi i libri di Grossman – che pure è favorevole all’etichettatura delle merci prodotte nei territori palestinesi come vuole la vulgata boicottatrice – sono sotto attacco tanto in Scozia quanto in Arabia Saudita dove Obeikan, la prima catena di librerie, è stata presa di mira da attivisti pro Bds perché sui suoi scaffali ci sono i libri dell’autore sionista.

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