Soldati bengalesi durante l'assalto al bar a Dacca, Bangladesh (foto LaPresse)

Perché a Dacca l'Isis ha scelto di colpire il business internazionale

Giulia Pompili

Il 2015 è stato caratterizzato da una serie di attentati volti a colpire il settore turistico. In Bangladesh a essere stati colpiti sono gli stranieri che lavorano sul territorio soprattutto con industrie del settore tessile, sfruttando la manodopera bangladeshi. La collaborazione sempre più stretta tra Italia e Giappone in materia d’intelligence.

Roma. Man mano che i giorni passano, dopo la strage di venerdì scorso alla Holey Artisan Bakery di Dacca, in Bangladesh, sembra sempre più chiaro chi ci sia dietro il massacro. Lo Stato islamico ha pubblicato online, già nella notte di venerdì, le foto dei terroristi – lo fa spesso, anche quando questi giurano fedeltà al califfo qualche ora prima di entrare in azione – e iniziano a venir fuori i dettagli della confusionaria gestione dell’emergenza da parte del governo di Dacca: nel corso delle undici ore di standoff nessuno ha mai pensato di poter trattare con i terroristi. Era una missione suicida. A smentire il coinvolgimento dello Stato islamico è Asaduzzaman Khan, ministro dell’Interno bangladeshi, che a Reuters ha confermato la linea tenuta dal governo di Sheikh Hasina fino a una settimana fa: i terroristi di Raqqa non c’entrano, gli estremisti in Bangladesh non hanno legami con l’esterno (Khan all’inizio di giugno aveva anche suggerito la teoria della “cospirazione internazionale” guidata da Israele).

 

Nel frattempo, la polizia e i media locali stanno studiando i profili sui social network dei terroristi identificati – uno di loro sarebbe Nibras Islam, che secondo le ricostruzioni avrebbe frequentato la prestigiosa Monash University di Kuala Lumpur, 9 mila dollari di retta all’anno, circa sei volte il reddito medio di un bangladeshi. Le venti vittime, secondo il racconto dei testimoni e le autorità di Dacca, sono state uccise nei venti minuti successivi all’irruzione del commando nella Bakery. I corpi dei nove italiani sono arrivati ieri all’aeroporto di Ciampino, accolti dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Qualche ora prima, anche i corpi delle sette vittime giapponesi erano tornati in patria.

 

Dell’attacco terroristico nella capitale del Bangladesh ci sono ancora due aspetti da mettere in luce. Il primo riguarda le missioni suicide cui abbiamo assistito nell’ultimo anno: l’attacco al museo del Bardo di Tunisi (18 marzo 2015), l’attacco al resort tunisino di Port El Kantaoui (26 giugno 2015), l’abbattimento dell’aereo di linea russo diretto verso l’Egitto (31 ottobre 2015), l’attacco all’hotel Radisson Blu in Mali (20 novembre 2015). Lo scorso anno è stato caratterizzato da una serie di attentati volti a colpire il settore turistico, che ha provocato notevoli danni economici e cambiamenti nei trend turistici (specialmente per paesi come l’Egitto e la Tunisia). In Bangladesh il caso è chiaramente diverso. A essere stati colpiti, questa volta, sono gli stranieri che lavorano sul territorio soprattutto con industrie del settore tessile, sfruttando la manodopera bangladeshi – un settore da 26 miliardi di dollari per Dacca.

 

Ieri Uniqlo, il quarto retailer d’abbigliamento al mondo e il più grande del Giappone, ha annunciato di aver sospeso tutti i viaggi di business diretti verso il Bangladesh. L’aspetto politico del terrorismo di stampo islamista, in Bangladesh, è fondamentale: “In un momento in cui lo Stato islamico sembra ormai essere diventato il nuovo modello di riferimento per il terrorismo internazionale”, ha scritto in un recente report Francesca Manenti del Ce.S.I., “l’adesione a Daesh potrebbe sempre più diventare un elemento di coesione per quei giovani jihadisti bengalesi che vorrebbero cercare di dare un cappello prestigioso alla lotta contro un governo centrale riconosciuto come non legittimo”. L’islamismo si unisce quindi a un sentimento di rivendicazione nazionalista, che spinge a colpire obiettivi considerati sensibili da almeno un anno, come le industrie e le ong straniere.

 

L’altro aspetto da considerare riguarda i rapporti tra Italia e Giappone, uniti non solo nella tragedia di venerdì scorso. Cinque giorni dopo l’omicidio del cooperante italiano Cesare Tavella, avvenuto il 28 settembre del 2015, è stato ucciso il cittadino giapponese Kunio Hoshi. Lunedì il ministro degli Esteri giapponese, Fumio Kishida, e l’omologo italiano Paolo Gentiloni hanno confermato, durante una telefonata, la stretta collaborazione d’intelligence tra Tokyo e Roma – che era già stata annunciata durante il viaggio di stato in Italia di Kishida nel marzo scorso.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.