Mullah Akhtar Mohammad Mansour

Cosa ci dice la storia surreale del capo talebano ucciso in taxi al telefono

Daniele Raineri
L’erede del Mullah Omar era un “frequent flyer” che volava spesso nel Golfo. Già rimpiazzato da un altro duro

Roma. La morte del capo dei talebani Mullah Akhtar Mansour è una vicenda surreale. A cominciare dal fatto che è stato ucciso mentre tornava in taxi dall’Iran, dove era andato il 25 aprile a visitare la sua famiglia. La convenzione vuole che Iran e talebani siano considerati nemici acerrimi, per la questione delicata della professione di fede: i talebani, come si sa, sono sunniti estremisti, e l’Iran è la nazione madre degli sciiti. In medio oriente sciiti e sunniti si ammazzano in nome di una differenza religiosa che risale al settimo secolo dopo Cristo. Tuttavia, è chiaro che le necessità della politica spesso prevalgono e già nel giugno 2015 il Wall Street Journal, che di solito è una fonte informata, aveva rivelato che l’Iran aiuta i talebani con armi e finanziamenti. Suonava come una svolta improbabile, ma ora c’è la notizia della morte di Mansour di ritorno da un viaggio in Iran, dopo un mese passato con la famiglia in mezzo ai presunti nemici. I propagandisti dello Stato islamico stanno già sfruttando l’opportunità per ridicolizzare i talebani afghani, accusati di essere un movimento venduto a governi e a servizi segreti stranieri.  

 

Secondo elemento surreale. Mansour aveva scelto per viaggiare un trucco semplice, mescolarsi alla gente e al traffico e non dare nell’occhio – come il suo predecessore, il Mullah Omar, morto con serenità di malattia vicino al mare nella megalopoli di Karachi. Così il capo di una guerriglia che da quindici anni uccide soldati occidentali, protegge al Qaida e prova a prendere con la forza l’Afghanistan è salito da solo su un taxi e ha percorso quasi tutti i seicento chilometri dell’autostrada 40 che dall’Iran porta a Quetta in Pakistan. L’afghano non sapeva che l’intelligence americana aveva agganciato la traccia elettronica del suo telefono. Un articolo del Wall Street Journal ammette soltanto, con pudore, che gli americani seguivano “uno dei congegni elettronici di Mansour” fin da marzo, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che fosse il telefono: i talebani dicono che il comandante è stato colpito da un missile subito dopo avere fatto una chiamata all’una di pomeriggio di sabato – ma non è necessario chiamare per tradire la propria posizione via telefono. In ogni caso il tragitto era così prevedibile che il Pentagono non è stato costretto a seguire l’automobile dall’alto per tutto il suo tragitto con i droni, come fa di solito, ma ha atteso che il bersaglio arrivasse in un luogo adatto e isolato.

 

Il capo talebano in taxi con il telefono acceso aveva anche un passaporto valido e una carta d’identità pachistani a nome Muhammad Wali. Il primo rilasciato a Quetta nel 2006 e poi rinnovato nel 2011, valido fino a ottobre 2016. La seconda rilasciata a Quetta nel 2002 e poi rinnovata a Karachi nel 2012. Grazie a quei documenti stranieri, il capo afghano viaggiava come un “frequent flyer”, dice un’agenzia d’investigazioni al giornale pachistano Dawn. Mansour è volato diciotto volte a Dubai, quasi sempre da Karachi e una volta da Quetta. E’ entrato in Iran la prima volta il 19 febbraio 2016 ed è tornato in Pakistan il 10 marzo. Poi è andato in Iran di nuovo il 25 aprile ed è stato ucciso al ritorno. Il Pentagono non poteva seguire l’auto di Mansour dall’alto con i droni perché altrimenti i pachistani si sarebbero accorti del bombardamento imminente grazie ai radar e avrebbero fatto decollare i loro caccia, e questo è un altro elemento surreale se si considera che il Pakistan è uno degli alleati che riceve più aiuti militari da Washington. A febbraio ha vinto un finanziamento da 600 milioni di dollari per acquistare caccia F-16 americani, ma in questi giorni la Camera e il Senato hanno approvato una legge che vincola i soldi all’obbligo, per l’Amministrazione americana, di provare che il Pakistan sta facendo la guerra almeno al gruppo estremista più pericoloso, il network Haqqani. Il governo pachistano ha reagito con sdegno al raid, senza citare la questione del passaporto e senza citare i precedenti imbarazzanti (su tutti l’uccisione di Osama bin Laden in una villa di Abbottabad nel 2010). Il presidente Nawaz Sharif ha parlato di “violazione della sovranità” e il ministro dell’Interno Nisar Ali Khan ha promesso “conseguenze serie” per “la violazione della legge internazionale”.

 

Anche la decisione di uccidere o no il capo talebano è particolare. Dal punto di vista tecnico, i talebani non sono sulla lista dei gruppi terroristi del dipartimento di stato. Il presidente Obama aveva un ampio potere di decisione e ha deciso di autorizzare l’operazione perché si è convinto – dopo aver provato a portarlo al tavolo della mediazione – che Mansour non era per nulla interessato ai colloqui di pace. L’afghano non aveva mandato negoziatori a febbraio e aveva rivendicato un attacco sanguinoso nella capitale Kabul contro il ministero dell’Interno. E’ stato il primo bombardamento americano in Pakistan non compiuto dalla Cia ma dal Pentagono, che è tenuto a una maggiore trasparenza e difatti ha commentato la notizia.

 

Ieri i talebani hanno annunciato il nuovo capo, Mullah Haibatullah Akhundzada. Secondo fonti afghane, in passato è stato giudice coranico del Mullah Omar e promette di essere malleabile quanto i predecessori, quindi molto poco.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)