Il fascino della divisa, in Germania

Pietro Romano
Sondaggi record pro armamenti, spesa pubblica in calo continuo

Roma. Mentre si intensificano le voci di un intervento straniero in Libia, il 51 per cento dei tedeschi chiede un forte incremento delle spese militari. Il resto si divide tra contrari e “non so”. La fonte potrebbe essere di parte (è l’Istituto di scienze sociali della Bundeswehr, le Forze armate, ad aver condotto il sondaggio), ma un anno fa – stessa fonte – i favorevoli si erano fermati al 32 per cento, meno dei contrari. Questa sembra essere la tendenza prevalente a Berlino e dintorni. A dicembre, tre quarti dei parlamentari hanno votato a favore della campagna militare in Siria, partita il primo di gennaio scorso e destinata a durare un anno (ma non ci crede nessuno) mentre alla Porta di Brandeburgo non più di duemila persone avevano accolto l’appello dell’estrema sinistra a manifestare per la pace. Un numero sempre decrescente dal 1992 in poi, insomma da quando la Germania in divisa, sia pure evitando a ogni costo la parola “guerra”, si è riaffacciata sullo scenario internazionale. Da allora sono passate più di 60 missioni all’estero e, vero giro di boa, sono tornati a casa, avvolti in tragici sudari, i corpi di 56 militari tedeschi morti in Afghanistan.

 

Fino alla caduta del Muro la Germania era militarmente molto bene attrezzata, in quantità e qualità. A dollaro costante, nel 1991 le spese per la difesa ammontavano a 67,2 miliardi di dollari, calati a poco più di 50 nel Duemila e a 42,8 nel 2015. La percentuale sul prodotto interno lordo si è dimezzata: dal 2,2 per cento del 1991 all’1,1 del 2015. I militari sono crollati a un terzo (scendendo a poco più di 181mila nel 2015, soprattutto a causa dell’abolizione della leva) e si sono ridotti in maniera esponenziale gli armamenti: i carrarmati calati da 7mila a 410, gli aerei da combattimento da 638 a 237. “Dai primi anni novanta la spesa militare tedesca non è mai più venuta incontro alle esigenze delle Forze armate ed è ormai cronicamente sottoalimentata”, ha spiegato l’ispettore generale dell’esercito, Bruno Kasdorf, alla Suddeutsche Zeitung. Il risultato? Sta in un rapporto al Parlamento coperto dalla segretezza ma di cui è trapelato qualcosa: la stragrande maggioranza degli armamenti e dei sistemi tedeschi non è utilizzabile immediatamente per missioni, esercizio, addestramento.

 

Il governo di Berlino ha promesso una crescita sostenuta delle spese militari. All’incirca un miliardo all’anno nel breve periodo. Ma per arrivare alla quota del 2 per cento sul pil decisa dai paesi dell’Alleanza atlantica l’anno scorso, si è solo a metà dell’opera. In dieci anni, infatti, la crescita complessiva dovrebbe raggiungere i 20 miliardi. Non mancano alla Germania, considerato lo stato dei suoi conti pubblici. E tenuto conto che la maggioranza dei cittadini è favorevole a un maggiore impegno internazionale del paese, soprattutto dopo il progressivo disimpegno degli Stati Uniti. “Ma un tale incremento potrebbe riportare nei partner europei vecchie paure e dinamiche politiche problematiche, di un’era ritenuta alle spalle”, ha rilevato nella recentissima ricerca sullo stato (pietoso) della dotazione militare dei membri europei della Nato, curato dal pensatoio americano Atlantic Council, Patrick  Keller, coordinatore delle politiche della sicurezza per la fondazione Konrad Adenauer. La spesa, oltre che in quantità, dovrebbe cambiare in qualità, portando la quota in ricerca e sviluppo dall’attuale 2,9 per cento al 20 per cento e facendo più o meno raddoppiare anche le spese per forniture e mantenimento degli armamenti, ora inferiore al 13 per cento. Ne gioverebbe, di sicuro, anche l’industria militare tedesca, che i forti tagli e gli scarsi investimenti rischiano di mettere all’angolo. Tra le prime cento industrie del settore al mondo ce ne sono ancora tre tutte tedesche (Rheinmetall, ThyssenKrupp, Krauss-Maffei) più il franco-tedesco-spagnolo Airbus Group. Ma la quota sul commercio internazionale di armamenti e sistemi tedeschi è crollata in pochi anni, secondo l’istituto svedese Sipri: dall’11 per cento del 2009 all’attuale 4,7 per cento.

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