Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (foto LaPresse)

Vade retro Erdogan

Marco Valerio Lo Prete
Ieri quasi venti cittadini, fra accademici e intellettuali, sono stati arrestati per aver firmato un appello intitolato “Non saremo complici dei vostri crimini”. Parabola di un (fu) bastione occidentale. Perché una Turchia, autoritaria e islamizzata, non c’entra più con la Nato. Parla Edward Luttwak.

Roma. Quasi venti cittadini, fra accademici e intellettuali, sono stati arrestati ieri in Turchia per il solo fatto di aver firmato un appello intitolato “Non saremo complici dei vostri crimini” contro la repressione militare del governo nelle aree del paese a maggioranza curda (19 gli affiliati del Pkk uccisi nelle ultime 24 ore). La stretta autoritaria di Ankara, comunque, è soltanto uno dei fattori che lo scorso novembre aveva spinto Edward Luttwak, analista americano e gran conoscitore del nostro paese, a chiedere l’espulsione della Turchia dalla Nato. Dopo gli interventi degli accademici Germano Dottori e Antonio Donno apparsi giovedì e venerdì su queste colonne, nei quali si registrava la crescente distanza strategica e cultural-politica della Turchia dall’Alleanza atlantica, abbiamo chiesto a Luttwak di approfondire la sua riflessione. “Mantengo la mia posizione sull’incompatibilità dell’attuale governo turco con la Nato, ma prima dell’espulsione del paese ovviamente ci sono tanti passaggi intermedi che possono essere tentati per sanzionare certi comportamenti. Finora, inspiegabilmente, non si è fatto nulla”, dice Luttwak al Foglio. “Nella primavera del 1946 le spoglie di Münir Ertegün, ambasciatore turco negli Stati Uniti, furono portate a Istanbul a bordo della gloriosa nave da guerra USS Missouri, cioè la nave su cui fu firmata la resa dell’Impero giapponese e che diede i natali alla Sesta flotta di stanza nel mar Mediterraneo. Questo per dire che di fatto la Turchia apparteneva all’Alleanza atlantica, alla Nato, ancor prima che la Nato nascesse formalmente”, dice l’analista. “Allora, però, l’islam politico era ancora fuori dalla porta, e il regime turco percorreva piuttosto la strada della democratizzazione e della modernizzazione”.         

 

Per Luttwak la situazione ad Ankara iniziò a cambiare al momento del “funesto incontro fra Turchia e Unione europea”. Le élite brussellesi pensarono che il paese che fa da cerniera tra Europa e medioriente “fosse come il Perù o l’Argentina, cioè che sarebbe bastato far fuori i militari che puntellavano il governo per avere una democrazia genuina. A forza di sanzioni e pressioni varie nei confronti dei militari e più in generale dell’élite kemalista di impronta laica, si è lasciato spuntare fuori l’islam anatolico, sostanzialmente oscurantista”. L’analista americano cita recenti sondaggi sul sostegno dell’opinione pubblica turca allo Stato islamico, come quelli svolti dal Pew research center (8 per cento dei cittadini turchi favorevoli al califfo, 19 per cento indifferenti). “L’Akp, partito dell’attuale presidente Erdogan, è il movimento che si oppone a quelli che localmente sono definiti i ‘turchi bianchi’, vale a dire i turchi europeizzati e post islamici. L’Akp è il partito dei ‘turchi neri’ che però nelle loro prime fila vestono Armani”.  Luttwak ne sottolinea i sotterranei legami originari con l’Arabia Saudita, poi l’appartenenza dichiarata all’islam politico (“anche nel simbolismo, come dimostra il fatto che le mogli di Erdogan e del premier Davutoglu non possono mostrare un solo capello in pubblico”), e infine gli atteggiamenti sempre più apertamente autoritari: “Ogni volta che un leader occidentale corteggia Erdogan, di fatto disconosce i dissidenti e i laici più in generale. Non assesta un colpo a una ristretta cerchia di intellò, sia chiaro, ma a milioni di individui come gli Aleviti che respingono in toto l’islam politico”. Erdogan, in definitiva, sarebbe “salito sull’autobus democratico per poi promuovere l’antioccidentalismo a tempo indeterminato”.

 

[**Video_box_2**]Ma la presenza del paese nella Nato non assicura forse all’occidente un bastione difensivo rispetto allo Stato islamico o ad altre eventuali insidie? E non è questo il senso profondo della Nato? “Ci sono almeno quattro fattori circostanziati che pongono la Turchia in rotta di collisione con l’Alleanza atlantica. Primo: a lungo, quando Erdogan si scambiava smancerie con il regime di Assad, Ankara consentì agli aerei russi di raggiungere la base siriana di Tartous, senza che la Nato potesse fare nulla. Poi per mesi, prima di essere richiamata all’ordine, Ankara ha trattato con i cinesi per alcuni armamenti, condividendo con loro molti aspetti riservati del sistema di difesa della Nato. Fino alla scorsa estate, Erdogan ha poi impedito l’utilizzo della base Nato di Incirlik per bombardare lo Stato islamico (Isis). D’altronde, ed è l’ultimo e decisivo punto, Erdogan e i suoi hanno alimentato l’Isis, anche economicamente, per combattere gli sciiti e gli alauiti”. Come leggere dunque il recente attentato dell’Isis a Istanbul? “E’ una lite su aspetti laterali. Ora Erdogan ha deciso, con la scusa di attaccare fittiziamente l’Isis, di bombardare più che altro i curdi, dentro e fuori dal suo paese, in modo da estendere la propria influenza in Siria. Ma la sua ambiguità non lo mette più totalmente al riparo dall’Isis”. L’espulsione della Turchia dalla Nato, proposta da Luttwak, era funzionale a lanciare una riflessione: “Sarebbe possibile, intanto, non mostrare più indulgenza di fronte a fatti gravi ma arrivare a sospendere la membership del paese. Inoltre mettere il paese sotto osservazione formale dall’esterno rafforzerebbe i ‘turchi bianchi’ al suo interno. Li farebbe sentire meno soli di fronte a una leadership che oramai nei comizi ha sdoganato formule sinistre e complottiste come ‘üst akil’ – cioè ‘la mente dietro le quinte’ o ‘la lobby dei tassi d’interesse’ o ‘la gente del sabato’ – per attribuire a questa entità le colpe di attentati, crisi economica e quant’altro. Il che dice molto di un animus sempre più anti occidentale di Erdogan&co.”, conclude Luttwak.

Di più su questi argomenti: