Recep Tayyip Erdogan e, sullo sfondo, Mustafa Kemal Atatürk

Perché oggi il mondo islamico rimuove Atatürk e la sua lotta al Califfato

Luciano Pellicani
Come non dare ragione a Vladimir Putin quando, parlando dell’attuale Turchia, dice che Mustafa Kemal Atatürk si sta rivoltando nella tomba. In effetti, non pochi sono i sintomi che indicano che Recep Tayyip Erdogan sta tradendo l’eredità politica e culturale del grande fondatore della Turchia moderna.

Come non dare ragione a Vladimir Putin quando, parlando dell’attuale Turchia, dice che Mustafa Kemal Atatürk si sta rivoltando nella tomba. In effetti, non pochi sono i sintomi che indicano che Recep Tayyip Erdogan sta tradendo l’eredità politica e culturale del grande fondatore della Turchia moderna. Una eredità centrata sull’idea che il popolo turco doveva mostrarsi degno di far parte della civiltà occidentale adottando le sue istituzioni cardinali. La prima delle quali era la rigorosa laicità dello Stato. Di qui l’abolizione, nel 1923, del Califfato, e la proclamazione della libertà religiosa.

 

Appena un anno dopo, l’egiziano Al Bannah replicò alla decisione di Atatürk creando quella che è stata giustamente definita la “madre di tutti i fondamentalismi”: l’associazione dei Fratelli musulmani. Obiettivo dichiarato: restaurare la piena vigenza normativa della sharia – la Via di Allah – espellendo dal  Dar al-Islam tutto ciò che sapeva di laicità e lanciando contro la civiltà occidentale – pagana e miscredente – una guerra santa di dimensioni planetarie. Sul punto, la prosa di Sayyid Qutb --  il massimo teorico della Fratellanza islamica -- non lascia dubbi di sorta: “L’islam è chiamato per necessità al combattimento, se vuole assumere il comando e la guida del genere umano… Essere musulmano significa essere un guerriero (mujahid), una comunità di guerrieri permanente in armi, pronti a mettersi a disposizione della volontà di Dio, ogniqualvolta lo richieda , poiché egli  solo è il vero capo in battaglia. Beninteso, l’islam aspira alla pace, ma a causa dell’aggressione che esso subisce si trova costretto a scendere sul terreno della guerra  e a utilizzare la forza militare”. Pertanto, il jihad era una guerra difensiva; più precisamente, una guerra imposta dall’aggressione occidentale. La quale non era solo politico-militare; era, prima di tutto e soprattutto, culturale. Essa – la civiltà occidentale – con le sue tecniche, le sue merci, le sue idee e le sue istituzioni sottoponeva la Umma – la comunità dei veri credenti –  a una aggressione permanente, la quale, iniettando il bacillo della miscredenza, minacciava la purezza della fede. Di qui l’imperativo assoluto di lanciare una dichiarazione di guerra contro l’Occidente e i suoi falsi valori.

 

Secondo Franco Cardini , i fondamentalisti “non ci odiano perché siamo liberi; ci odiano perché presentiamo come libertà e progresso una realtà basata sull’ingiustizia e sull’immoralità”. Nulla di più lontano dalla realtà. Ci odiano – i fondamentalisti  – perché siamo una civiltà secolarizzata, frutto della rivoluzione culturale operata dall’Illuminismo. E’ quanto ha dichiarato con la massima chiarezza Abbasi Madani, leader del Fronte islamico di salvezza (Fis), durante una intervista concessa a un giornalista francese: il peccato capitale dell’Occidente sta nel fatto che esso “ha rinnegato la Rivelazione, venerato la Ragione e adorato la Materia”. Di qui la richiesta,  da parte dello stesso Madani, di elevare un’impenetrabile cortina per impedire la penetrazione della cultura laica nella Umma.

 

In effetti, tutto accade come se i popoli musulmani si sentissero aggrediti dalla smisurata potenza radioattiva della civiltà occidentale, la quale non conosce confini di sorta. Essa investe, con le sue molteplici radiazioni culturali, le culture-altre e le costringe a ideare una adeguata “risposta”. Quella di Atatürk fu tipicamente “erodiana”, quella di Khomeini, altrettanto tipicamente, “zelota”. E, infatti, è l’idea di separare il sacro dal profano che Khomeini non poteva tollerare. Dal momento che, per la Rivelazione coranica, la religione e lo Stato – din wa dawlah – sono un’unica realtà, ogni tentativo di separare il potere religioso dal potere secolare non può non essere considerato come un empio allontanamento Legge divina. Di qui la formula con la quale Khomeini sintetizzò il suo programma di restaurazione della purezza della sharia: “L’islam o è politico o non è”. Ciò significa che c’è una  incompatibilità di principio fra l’islam e la Città secolare. Ed essa è così radicale da indurre Fatima Mernissi ad affermare che l’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani – “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione” – “è l’esatta definizione della  Jahiliyya , il caotico mondo pagano precedente l’islam.  Di qui il fatto che, ai nostri giorni, la libertà nel mondo arabo è sinonimo di disordine”.

 

[**Video_box_2**]Tutto ciò indica chiaramente che la reazione islamista contro l’Occidente non ha nulla a che vedere con  l’ipocrisia dell’Occidente e le sue inadempienze. E’ strettamente legata al fatto che la nostra civiltà ha assunto marcati caratteri pagani. Ed è precisamente contro il neopaganesimo – id est, contro i valori  della Città secolare – che i jihadisti sono scesi sul sentiero di guerra.  

 

Ci troviamo di fronte a una guerra culturale fra due modelli di civiltà assolutamente inconciliabili: quello (ierocratico) della Città sacra e quello (laico)  della Città secolare. E la superiorità di quest’ultima non va cercata nella potenza tecnologica, come ritiene – ancora una volta sbagliando – Cardini. Va cercata nella superiorità etico-politica dell’individualismo sul collettivismo liberticida dell’islam. Che è esattamente ciò che percepì con la massima chiarezza un giovane diplomatico turco davanti alla Esposizione che si tenne a Parigi nel 1878:  “Quando alzate gli occhi verso questa affascinante esibizione del progresso umano, non dimenticate che tutte queste riuscite sono opera della libertà. E’ sotto la protezione della libertà che i popoli e le nazioni raggiungono la felicità. Senza libertà, non ci può essere sicurezza; senza sicurezza, non c’è sforzo; senza sforzo non c’è prosperità; senza prosperità, non c’è felicità”.