Barack Obama si è commosso durante una conferenza stampa sul gun control lo scorso 5 gennaio alla Casa Bianca

Libero fucile in libero stato

Il diritto alle armi contro cui Obama si batte è il cuore della costituzione materiale dell’America. Il presidente del “buonsenso” parla a nome dei morti, ma per i vivi tradisce lo spirito della nazione

Questa notte, durante l’ultimo discorso di Barack Obama sullo Stato dell’Unione, nel palchetto d’onore dove siede la First Lady ci sarà una sedia vuota per ricordare le “vittime delle armi da fuoco che non hanno più una voce” e “hanno bisogno che tutti noi parliamo per loro”. Obama ama questo genere di trovata a effetto. L’ha usato talmente tanto durante la presidenza che talvolta l’effetto è svanito prima ancora della performance, ma sul gun control sta investendo tutte le energie politiche ed emotive che gli sono rimaste a disposizione, e il discorso rituale davanti al Congresso, alle autorità e al popolo americano è un palco irrinunciabile per riaffermare ancora una volta il punto. Ma quale punto, esattamente? Questo: restringere l’accesso alle armi da fuoco è una questione di “common sense”.

 

E’ un fatto di buon senso, non è una presa di posizione politica, una partigianeria, un punto nell’agenda come gli altri, è l’affermazione del famoso “lato giusto della storia” su quello sbagliato. Guns kill people, ricordano sempre i liberal, sostenendo che l’esorbitante numero di morti per arma da fuoco in America dipende esclusivamente dalla disponibilità diffusa, e costituzionalmente protetta, dei fucili e pistole, dunque ridurre gli strumenti ridurrà anche gli omicidi. Che i provvedimenti che Obama propone possano effettivamente funzionare è quasi un accidente secondario. Quella messa in piedi dal presidente con rinnovato vigore dopo la strage jihadista di San Bernardino, in California, è una campagna politica up to a point. E’ il frutto di anni di vane pressioni sul Congresso e di una schiera di ordini esecutivi diramati quando i rappresentanti del popolo si sono rifiutati per l’ennesima volta di fare una riforma, ma non è riducibile alla pura ricerca di una vittoria per i manuali di storia, né all’ancestrale pulsione di riflettere i cambiamenti dell’opinione della maggioranza per ricavarne facili consensi. E’ una crociata, una battaglia fra bene e male, talmente importante che questa notte il presidente parlerà anche a nome dei morti.

 

La battaglia di Obama si scontra però con una concezione della libertà individuale profondamente incastonata nella costituzione materiale degli Stati Uniti. Un aspetto non secondario dell’“eccezionalismo americano” è la primazia della libertà individuale, intesa come pura autonomia e autopossesso, e il diritto di portare armi stabilito nel Secondo emendamento alla Costituzione non fa che garantire agli individui la difesa della propria autonomia da chiunque voglia indebitamente limitarla. E’ un diritto adeguatamente bilanciato dalla severità delle pene per chi abusa degli strumenti di difesa a sua disposizione per danneggiare l’altro. Sono variazioni su un tema lockeano che innerva l’intero dibattito all’origine degli Stati Uniti ed è incredibilmente rilevante anche oggi, almeno come lente interpretativa della campagna obamiana.

 

Quello alle armi è un diritto “del popolo”, specifica la carta: è una prerogativa che precede l’avvento dello stato, il quale deve limitarsi a rispettarla. Soltanto qualche irriducibile interprete della scuola originalista e catacombali frange di paranoici in camouflage che si nutrono di cospirazioni pensano davvero che il diritto di portare armi risieda nella concreta possibilità che le truppe di Sua Maestà aggrediscano l’America oppure che il governo stesso opprima militarmente il popolo. Le esigenze storiche che hanno nutrito la cultura americana delle armi sono venute meno, ma il significato simbolico è rimasto intatto. A tal punto che il grafico che registra le oscillazioni dei sentimenti dell’opinione pubblica sulle armi non è, come la Casa Bianca vorrebbe far credere, una retta che progressivamente digrada verso l’archiviazione di un anacronismo ideologico.

 

L’istituto Gallup dice che oggi il 55 per cento degli americani vorrebbe leggi più restrittive sulle armi, ma nel 1990 era il 78 per cento a chiedere gun control, variazione che contraddice l’idea obamiana di una progressione inevitabile della storia verso il “lato giusto”. Non è un plebiscito né un nuovo standard. E’ questione combattuta e incerta nella società, e i progressisti tendono a dire che la confusione sia tutta colpa dell’onnipresente lobby delle armi, che investe un’infinita quantità di denaro per spaventare i law abiding citizen con scenari orwelliani in cui i funzionari del governo federale vanno casa per casa a requisire le pistole. La National Rifle Association e le altre associazioni del settore certamente combattono per la liberalizzazione (e contro le restrizioni) ma la nota lobby spende alcuni milioni di dollari l’anno per fare pressione sui legislatori, siamo ad anni luce dai gruppi farmaceutici ed energetici, che operano nell’ordine dei miliardi di dollari. Ad ogni modo il presidente della Nra, Wayne LaPierre, risponderà domani a Obama con un controdiscorso, culmine di una campagna uguale e contraria a quella della Casa Bianca, non senza un certo impatto mediatico.

 

I millennial, i giovani fino a 35 anni che costituiscono peraltro il bacino elettorale più vasto in termini generazionali, sono particolarmente tiepidi verso l’iniziativa di Obama, altro dato che se appare controintuitivo è soltanto perché dall’altra parte dell’oceano non è facile cogliere la rilevanza filosofica nascosta nel diritto americano al possesso armi. E certamente una generazione familiare con l’eterna moltiplicazione e la continua estensione dei diritti individuali ha buone ragioni per essere confusa da un tentativo di ridurli, nonostante che le stragi da arma da fuoco siano una piaga costante nella società americana.
Quando Obama ha messo in scena la sua “evoluzione” ideologica sul matrimonio omosessuale, allineandosi alla posizione più rappresentata nei sondaggi, ha presentato l’istituto del matrimonio come unione esclusiva fra un uomo e una donna come una minaccia a un valore fondante dell’America, l’uguaglianza.

 

[**Video_box_2**]L’uguaglianza di fronte alla legge è il fulcro della posizione portata avanti dagli attivisti gay per decenni, infine abbracciata dal governo e poi introdotta nel sistema legale dalla Corte suprema, che non si è limitata a stabilirne la liceità, ma addirittura ha posto il matrimonio fra persone dello stesso sesso sotto la tutela costituzionale. Significa che, secondo il ragionamento dei giudici, la possibilità di sposarsi con chi si vuole, a prescindere dal genere, ha a che fare con le ragioni profonde che hanno ispirato l’esperimento democratico americano. Che l’interpretazione sia corretta è oggetto di discussione fra giuristi, ma sulla ratio e il suo svolgimento ci sono pochi dubbi. Con motivazioni analoghe i sostenitori del diritto, ampio e deregolamentato, ad acquistare e detenere armi da fuoco per la pura affermazione dell’autonomia personale (autodifesa, tranquillità ecc.) dicono che il “gun control” è una minaccia a un altro valore fondante degli Stati Uniti, la libertà.

 

Ed è pure più intricato e spinoso del dibattito sull’uguaglianza, ché la concezione e collocazione della libertà individuale nella tavola dei valori della nazione è in tensione con i caratteri della modernità europea, che è un compasso puntato sul centro dello stato. E’ un tratto peculiare e irriducibile della democrazia americana. Per questo i critici più efficaci della posizione che Obama articolerà di nuovo questa notte non sono quelli che lo accusano di proporre misure che non funzionano e non serviranno a ridurre il numero di morti e la frequenza delle stragi, ma quelli che lo tacciano di fare un torto mortale allo spirito della nazione.

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