Barack Obama (foto LaPresse)

La faccia debole dell'America

Paola Peduzzi
Da giorni il segretario di stato americano, John Kerry, sta al telefono con i suoi referenti nel governo iraniano e in quello saudita in cerca di “moderazione”. Ma se pensate che gli Stati Uniti vogliano giocare un ruolo di mediazione, “la risposta è no”, dice il portavoce del dipartimento di stato.

Milano. Da giorni il segretario di stato americano, John Kerry, sta al telefono con i suoi referenti nel governo iraniano e in quello saudita in cerca di “moderazione”. Ma se pensate che gli Stati Uniti vogliano giocare un ruolo di mediazione, “la risposta è no”, dice il portavoce del dipartimento di stato. Washington non vuole scegliere tra l’alleato storico, l’Arabia Saudita, e il nuovo invitato ai tavoli internazionali, l’Iran, e se, come racconta il New York Times, c’è un clima “di simpatia” più per Teheran che per Riad, soprattutto in Europa, tre esperti di medio oriente spiegano sull’ultimo numero di Foreign Affairs che, per far funzionare l’alleanza con l’Iran, l’America deve “fare la dura”.

 

L’articolo “Time to get tough on Teheran” è firmato da Eliot Cohen, neocon oggi professore alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies, Eric Edelman, diplomatico ex sottosegretario alla Difesa con George W. Bush, e Ray Takeyh, americano-iraniano consulente di Dennis Ross, quando era l’inviato in Iran dell’Amministrazione Obama, che sta per pubblicare un libro dal titolo “The Pragmatic Superpower: Winning the Cold War in the Middle East”. L’approccio di questi esperti alla questione iraniana è considerato falco, pensano che il deal sul nucleare siglato con Teheran a luglio sia il frutto di un rifiuto, da parte di Barack Obama e della sua diplomazia, di comprendere la natura del regime di Teheran: “La Repubblica islamica non è uno stato convenzionale che fa una stima pragmatica dei suoi interessi nazionali, ma è un regime rivoluzionario”, scrivono su Foreign Affairs, e “un riavvicinamento tra Washington e Teheran non è possibile, perché, come sanno benissimo i leader iraniani, questo metterebbe a repentaglio l’esistenza stessa del regime”. Poiché l’Iran pone una minaccia agli interessi americani (e a quelli di Israele), Washington dovrebbe utilizzare l’accordo non solo per monitorare avanzamenti tecnici o stock di uranio, quanto per “erodere sistematicamente le fondamenta del potere” di Teheran. I tre esperti, venati da un idealismo desueto, sono convinti che anche la Repubblica islamica finirà con i “relitti ideologici del XX secolo” come l’Urss, e collasserà, ma nel frattempo è importante non illudersi che ci possa essere pace tra America e Iran. Cohen, Edelman e Takeyh scrivono che l’accordo sul nucleare concede a Teheran la possibilità di costruire centrifughe avanzate che, sotto sanzioni e nell’isolamento internazionale, sarebbero costate moltissimo in soldi e tempo. Per questo si augurano che “il prossimo presidente degli Stati Uniti” riveda il deal, e spiegano come: ogni cinque anni bisogna rivotare l’accordo, ritrovare l’unanimità: gli europei si infastidiranno?, non importa; l’Iran dovrebbe trasferire tutto l’uranio arricchito fuori dal paese “for good” e le centifughe utilizzabili dovrebbero essere solo quelle di base; le ispezioni dovrebbero avvenire con un giorno di preavviso, come accadde con il Sudafrica negli anni 90: solo così l’Iran dimostrerà di non avere nulla da nascondere.

 

Meccanismi e clausole a parte, gli Stati Uniti hanno “l’obbligo morale”, altra formula desueta, di “punire” l’Iran per le sue aggressioni regionali, per la sponsorizzazione del terrorismo e per gli abusi dei diritti umani. Naturalmente l’articolo è stato scritto prima che scoppiasse la crisi con l’Arabia Saudita: oggi (in realtà già da qualche tempo, ora con più veemenza) molti chiedono agli Stati Uniti di fare la stessa cosa – denunciare abusi e connivenze con il terrorismo – nei confronti del regno di Riad. L’Amministrazione Obama punta sull’equidistanza, i sauditi lasciano che si sappia che a loro non interessa granché delle denunce di Washington, ma i tre studiosi che scrivono su Foreign Affairs aspirano a qualcosa di più, cioè alla creazione di una coalizione anti Iran efficace, gestita dai paesi del Golfo e governata da Washington. Non sono gli unici: da giorni il Wall Street Journal chiede che ci sia una presa di posizione chiara a favore dell’alleato saudita, che con l’asse sunnita ha la chiave per risolvere più di un problema.

 

[**Video_box_2**]Cohen, Edelman e Takeyh invocano il regime change, ennesimo termine desueto, dicono che l’errore più grande della presidenza obamiana è stato ignorare la piazza antiregime del 2009 a Teheran, chiedono strumenti finanziari e strategie militari che riducano l’influenza dell’Iran nei conflitti regionali. L’accordo sul nucleare, con le rivisitazioni consigliate, può essere utilizzato come leva, l’occidente “does not need to settle”, non si deve accontentare di un patto armato sperando che in qualche modo gli ayatollah diventino moderati. Può usarlo per fare una politica di pressione, per una volta, con il prossimo inquilino della Casa Bianca, forse.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi