Barack Obama con il re saudita Salman (foto LaPresse)

Così è cresciuto l'isolamento dei sauditi in occidente. Perfino nei media

Marco Valerio Lo Prete
Dietro la freddezza: l’ambiguità di Riad contro lo Stato islamico, l’accordo obamiano con Teheran, la rivoluzione energetica

Roma. “Qualcosa sta cambiando nelle relazioni dell’occidente con l’Arabia Saudita. Lo puoi leggere sui giornali. Te ne rendi conto ascoltando i politici. E lo puoi desumere da alcuni cambiamenti politici”. E’ quanto rilevato qualche settimana fa, quindi ben prima delle tensioni di questi ultimi giorni innescate dall’esecuzione a Riad dell’imam sciita Nimr al Nimr, da Gideon Rachman, editorialista del Financial Times. Il re Salman, tra lotte intestine alla famiglia regnante generate da modalità di  successione giudicate anomale, crollo del prezzo del petrolio (un barile è fermo attorno ai 40 dollari), economia poco diversificata e demografia calante, potrebbe legittimamente pensare ad altro. Eppure l’ostilità sempre più malcelata da parte dell’establishment occidentale costituisce una  novità nelle relazioni internazionali dell’area mediorientale.

 

Rachman nel suo intervento osserva come sempre più spesso i giornali inglesi e americani ospitino “articoli ostili verso i sauditi”. C’è l’Observer che ha denunciato la relazione di Londra con Riad in quanto “alleanza non edificante che mette a rischio la nostra sicurezza”. La Bbc che senza timori da settimane si occupa della “ondata di esecuzioni senza precedenti” avvenuta per mano del boia della penisola arabica. Thomas Friedman, intervistatore seriale del presidente Barack Obama, columnist americano tra i  più seguiti del pianeta grazie anche alla sua capacità di popolarizzare temi complessi di ambito geopolitico, ha definito lo Stato islamico come “un frutto ideologico” dell’Arabia Saudita.

 

Nel 2014 aveva fatto scandalo che il ministro dello Sviluppo tedesco, Gerd Müller – meno noto alle cronache internazionali dell’omonimo calciatore appena scelto dalla Bild come miglior giocatore della storia della Bundesliga –  avesse accusato il Qatar di finanziare lo Stato islamico. Più recentemente però è stato Sigmar Gabriel, cioè il vicecancelliere di Angela Merkel, a indicare esplicitamente l’Arabia Saudita come una delle fonti di finanziamento dell’estremismo in Europa, aggiungendo tra l’altro: “Dobbiamo chiarire ai sauditi che è finito il tempo in cui si poteva guardare dall’altra parte”.

 

Il discorso pubblico italiano, solitamente meno concentrato sugli affari mediorientali, non è rimasto comunque del tutto immune a questa nuova ondata di freddezza verso l’Arabia Saudita. Il governo Renzi, a dire il vero, pare mantenere nell’area una “postura bizantina”, come l’ha definita Germano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss, in un suo saggio apparso sull’ultimo numero della rivista Limes, tra un’entente più che cordiale con l’Egitto di al Sisi (avversario numero uno dell’islam politico) e rapporti di vicinanza con Emirati Arabi Uniti e Turchia (che invece l’islam politico lo sostengono eccome). In questo contesto si inserisce “l’importante relazione annodata dal nostro governo con l’Arabia Saudita, di recente visitata dal presidente del Consiglio”, scrive Dottori. Che poi conclude: “La complessa miscela di rapporti e di scelte che costituiscono la nostra attuale politica estera nei confronti degli attori e delle aree dove si sta consumando la grande guerra civile musulmana pare al momento un ragionevole compromesso, anche se niente e nessuno possono garantirci che l’Italia non sarà mai attaccata da questo nuovo terrorismo”. Posture meno bizantine, da qualche tempo, sembrano quelle assunte da una schiera di analisti e commentatori italiani.

 

All’Arabia Saudita, innanzitutto, si imputa una ambiguità di fondo nella lotta allo Stato islamico in Siria. Lucio Caracciolo, su Repubblica, ha scritto che una delle priorità dell’occidente nella lotta al terrore è “definire il campo degli amici e dei nemici. Il nemico è chiaro: il jihadismo in generale e lo Stato islamico in particolare. Il nemico del nemico è altrettanto palese: l’islam sciita, ovvero l’Iran e i suoi alleati a Baghdad, Damasco e Beirut, e in prospettiva gli stessi regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, che hanno alimentato i seguaci del califfo. (…) Le priorità sono dunque due: ricompattare gli atlantici e comunicare ai sauditi e alle altre cleptocrazie del Golfo che il tempo del doppio gioco è scaduto. In questa battaglia non c’è posto per ‘un mondo di mezzo’”. Per ragioni simili Roberto Toscano, ex ambasciatore (dal 2003 al 2008 in Iran) ed editorialista della Stampa, si è detto più volte scettico sulla possibilità di un ruolo costruttivo di Riad nella transizione post guerra civile in Siria. Ha accusato Salman e i suoi di aver escluso alcuni gruppi moderati di opposizione ad Assad da un’importante riunione ospitata a Riad a dicembre, mentre d’altra parte si ammettevano al tavolo “due movimenti islamisti radicali, Jaish al-Islam e Ahrar al-Sham che si farebbe molta fatica a definire come ‘opposizione democratica’ e la cui ideologia è invece molto vicina al wahabismo saudita”.

 

Gli attentati del 13 novembre scorso a Parigi hanno approfondito il solco tra occidente e Riad. Alberto Negri, in un’analisi sul Sole 24 Ore, osservava come nella “Santa alleanza” anti Isis costituita rapidamente dal presidente francese Hollande ci fosse oramai più Iran che Arabia Saudita: “Teheran ha colto così al volo l’occasione di dare una mano al paese occidentale che pur di concludere lucrosi contratti con l’Arabia Saudita (aerei e centrali atomiche) aveva posto i maggiori ostacoli alla firma dell’accordo sul nucleare con l’Iran, l’incubo di Riad e delle monarchie del Golfo”.

 

D’altronde l’evento che più degli altri ha allontanato la monarchia saudita dal cuore degli occidentali è stato proprio il deal concluso la scorsa estate con Teheran per ferma volontà di Obama. Un accordo che è ancora da valutare per le sue reali capacità di contenere l’espansionismo atomico degli ayatollah, ma che da mesi ha già stregato politici, diplomatici e commentatori – italiani ed europei in particolare – in quanto dimostrazione vivente della legalità internazionale che omnia vincit e dell’arte diplomatica che costringe a ragionare anche la rivoluzione islamica che si era fatta stato. Se l’Iran degli ayatollah non poteva che brillare della luce riflessa da questo trofeo  indiscutibile – secondo molti – della politica estera obamiana, dall’altra parte la solita Arabia Saudita non poteva che restare nell’ombra.

 

[**Video_box_2**]Né imprenditori e commentatori italiani si sono dimostrati insensibili alle conseguenze economiche di quel deal. “Per quanto riguarda in modo specifico l’Italia – ha scritto Romano Prodi a luglio sul Messaggero – basta ricordare che per decenni siamo stati il paese europeo che più ha avuto rapporti economici e politici con l’Iran e che le recenti sanzioni hanno colpito noi più di ogni altro. Bisogna quindi operare con grande tempestività ed energia per ripristinare il ruolo che abbiamo ricoperto in passato”. Il tutto, tra l’altro, mentre la rivoluzione energetica dello shale gas ha continuato a rendere gli Stati Uniti meno dipendenti dal petrolio saudita. Correre verso Teheran, insomma, con Riad lontana dagli occhi e lontana dal cuore.
Senza potersi dimenticare, però, quanto confidato a Rachman, sul Financial Times, da un anonimo ufficiale occidentale dell’antiterrorismo: “I sauditi qualche volta sono sia la fonte del problema, sia il miglior antidoto allo stesso”.

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