La guerra a Baghdad nel 2003 e negli anni successivi è il gigantesco flash-back che spiega la guerra contro lo Stato islamico oggi

Perché Obama perde in Iraq

Daniele Raineri
L’ex ufficiale dell’intelligence americana più esperto di guerra a Baghdad ci spiega che il presidente non crede alla sua stessa strategia contro lo Stato islamico.

Nel 2008 il giornalista investigativo Bob Woodward (quello del Watergate) pubblicò un libro sugli ultimi due anni di guerra in Iraq visti da dentro la Casa Bianca (“The War Within”). Uno dei personaggi raccontati era un controverso ufficiale dell’intelligence militare, Derek Harvey, che aveva un metodo di lavoro poco ortodosso ma che arrivava a conclusioni azzeccate in una situazione – la guerra in Iraq – in cui pochi capivano davvero qualcosa. 

 

Harvey era un sostenitore convinto del lavoro “in immersione”, che vuol dire passare mesi di fila sul campo in Iraq a raccogliere informazioni in prima persona invece che affidarsi soltanto ai rapporti di seconda mano e alle statistiche. Bob Woodward lo descrive come un tenente Colombo – pieno di domande, molto curioso e dall’apparenza assolutamente non minacciosa. Alla fine degli anni Ottanta, Harvey attraversò l’Iraq prendendo molti taxi – ottocento chilometri, di villaggio in villaggio – e passò il tempo di giorno a parlare con la gente che incontrava durante il viaggio e di notte a dormire su pavimenti d’argilla dentro camere che avevano una tendina da doccia al posto della porta. Dopo la guerra del Golfo del 1991, quando la Cia prevedeva la caduta imminente e inevitabile del rais Saddam Hussein – che aveva commesso l’errore di invadere il Kuwait e di sfidare America e sauditi – lui sostenne il parere opposto: Saddam Hussein sarebbe rimasto al suo posto. Non contava che avesse perso la guerra in modo disastroso, perché i sunniti iracheni sapevano che le loro fortune erano legate a quelle del presidente e lo avrebbero sostenuto. Aveva ragione e Saddam Hussein rimase al potere fino al 2003.

 

Dieci anni dopo questo investigatore dell’Iraq fu uno dei primi a capire cosa stava succedendo nel paese in seguito all’invasione americana – forse sarebbe meglio dire “il primo a capire che gli americani non avevano capito”. Non era ancora passato un anno intero e l’illusione che le autobomba fossero soltanto scosse d’assestamento e che la violenza e i saccheggi fossero soltanto una tormentata convalescenza post liberazione ormai si era dissolta: la guerra non era finita, anzi era appena cominciata contro un nemico nuovo (e dura ancora oggi). I baathisti avevano lasciato il posto ai gruppi ultraviolenti e fanatici che poi hanno formato lo Stato islamico di oggi.

 

Dopo l’invasione del 2003, Harvey riprese a viaggiare con discrezione nel paese, faceva missioni esplorative “a bordo di macchine non ufficiali, senza divisa e senza elmetto” dice al Foglio. Parlava con tutte le parti in causa, a volte anche con i guerriglieri (non le frange più estremiste), sedeva nelle camere degli interrogatori. Uno dei suoi approcci favoriti  era il cosiddetto Doc-ex, una contrazione di “Documents exploitation”, estrarre informazioni dall’analisi delle lettere e dei documenti trovati in giro. Passava ore sui faldoni trovati dalle forze speciali che facevano irruzione nei covi e sui dati finanziari presi dalle valige di Saddam Hussein. Apprendeva che i leader, i generali e altri ufficiali del vecchio regime baathista si stavano riunendo. Studiava documenti e lettere trovati negli edifici che erano stati attaccati dalle forze americane. Assieme alle sue conversazioni, raccontavano una storia: il vecchio regime aveva un piano per fare dell’Iraq post invasione un ambiente ostile e violento.

 

Woodward scrive che una sera il generale americano George Casey invitò Harvey a fumarsi un sigaro assieme. Nel giugno 2004 Casey era stato mandato a comandare i centocinquantamila soldati americani in Iraq e sapeva di essersi preso un incarico difficile. Un ufficiale disse al generale: “Se vuoi capire cosa sta succedendo in Iraq, chiama Derek Harvey”. Casey convocò l’analista d’intelligence all’inizio di luglio, su un balcone di un palazzo di Camp Victory che affacciava su Baghdad e alzò due sigari: “Fumi?”.

 

Harvey disse al generale che la guerriglia non voleva conquistare il potere politico. “Vuole logorarti, costringerti a lasciare il campo e sovvertire l’ordine esistente”. Per lui, gli americani dovevano imparare ad agire con umiltà perché non comprendevano un’enormità di cose, a partire da come i guerriglieri iracheni prendono le decisioni. “Crediamo di capire, ma ci illudiamo. Vediamo bagliori e da quelli estrapoliamo”. Ma se scavi davvero, su cosa si basano davvero le decisioni? “Non capiamo lo scontro in cui siamo”, disse Harvey a Casey: “Siamo nei guai”.

 


“Se gli americani non mostrano impegno e volontà nella guerra in Iraq, non convinceranno mai i sunniti a impugnare le armi al loro fianco”


 

A maggio 2015 Harvey, che ormai è un in congedo e quindi può parlare in pubblico, è stato richiamato in audizione davanti al Senato americano per spiegare come combattere lo Stato islamico in Siria e in Iraq. L’idea è che la Baghdad del 2004 non è che un gigantesco flash-back che spiega la situazione di oggi. Lo Stato islamico non ha mai cessato di esistere (anche se è passato attaverso nomi diversi), di essere operativo e di seguire la sua ideologia ultradura, siamo stati noi piuttosto a esserci distratti. L’America sta combattendo la stessa guerra, però lo sta facendo male.

 

Qual è l’errore più grave nella strategia americana in Iraq in questi mesi?

 

L’errore più grande del presidente Barack Obama in questi mesi è che non ha dato alla sua stessa strategia abbastanza sostegno per farla vincere, anche se secondo me la sua strategia non funzionerebbe comunque. Non ci ha messo davvero la leadership e le risorse necessarie a farla funzionare. E’ come se tenesse tutto al livello minimo di impegno. Sia che si tratti dei combattimenti, sia che si tratti della campagna aerea di bombardamenti oppure di elaborare una controstoria che si opponga alla propaganda dello Stato islamico.

 

E se la strategia di Obama si basa sull’avere partner locali che combattono contro lo Stato islamico al posto degli americani, allora non ha investito abbastanza per addestrare i siriani o gli iracheni o i curdi e per metterli in grado di combattere, e non l’ha fatto abbastanza velocemente da riuscire a creare una differenza sul campo. Non ha mandato la gente giusta – che poteva aiutare i nostri partner a diventare efficienti. Se il tuo piano a si basa sugli alleati locali e tu non fai quello che serve per aiutarli e non li fai crescere in fretta, allora c’è un grosso problema.

 

Ma è successo anche ai settori del governo che si occupano di questa guerra. Non si sono orientati e riadattati per questo conflitto. Lo hanno fatto un poco, ma molto meno di quanto servirebbe alla strategia del presidente Obama per funzionare. E questo è il suo più grande fallimento. Che non gli importa davvero. Sta giusto facendo abbastanza perché sembri che stia facendo qualcosa e quindi per poter dire – e quando lo fa sta creando un falso argomento – che o si fa come dice lui oppure bisogna di nuovo inviare centosessantamila truppe di terra in Iraq.

 

Stiamo parlando del fatto che non ci mette abbastanza risorse dal punto di vista finanziario, oppure di altro?

 

Stiamo parlando di organizzarsi per il combattimento, di organizzare la collaborazione, di dare la leadership necessaria e di chiedere conto alle persone dei risultati che ottengono. E questo vale per la guerra alle finanze dello Stato islamico, per la guerra di propaganda, per la campagna di addestramento e di armamento, per gli aiuti umanitari, per lo sforzo diplomatico, per la campagna di bombardamenti. E’ come se ci fossero restrizioni su tutto e non ci fosse alcuna urgenza in alcun settore, nessuna voglia di fare la differenza, perché sanno che non ci sono davvero aspettative e sanno che alla Casa Bianca non c’è una forza trainante in cerca di cambiamenti reali. La vergogna è che abbiamo mandato in Iraq gente che ora è là per non ottenere un vero cambiamento. E’ là per creare la parvenza che stiamo facendo qualcosa. E’ una scatola vuota.

 

[**Video_box_2**]Che effetto ha tutto questo sul morale dei soldati inviati laggiù?

 

La gente è frustrata. Sono rassegnati a… questo stato di cose. Sono professionisti e fanno quello che si chiede loro, ma sai, dal livello più basso del Pentagono, capiscono che non c’è un’intenzione o una volontà reale di fare la differenza. E i soldati vorrebbero fare qualcosa, ma, sai, la maggior parte di loro non la pensa come il presidente, che va orgoglioso del fatto che non ci faremo più coinvolgere là. Molti soldati pensano che è per questo che si sono arruolati. Non stiamo parlando di riportare cinquantamila soldati in Iraq, sto parlando di fare le cose con un senso di urgenza e di fare una differenza. C’è anche da considerare l’impressione che diamo agli iracheni e agli arabi sunniti. Se non mostriamo di impegnarci e di avere la volontà di fare la differenza, loro non impugneranno le armi per combattere con noi. Non riusciremo a far cominciare di nuovo un Risveglio tra i clan, avremo soltanto qualche sussulto e qualcosina qui e là (il Risveglio è il nome della rivolta tribale dei sunniti iracheni che a partire dal 2006 spazzò via al Qaida da vaste zone del paese con l’aiuto degli americani). Non riusciremo a convincere davvero il primo ministro iracheno Abadi che gli conviene allinearsi con noi e dipendere da noi americani. Non riusciremo a convincere la coalizione di stati arabi sunniti – Egitto, Turchia e altri – a fare di più in questa guerra, perché vedranno la natura spenta della nostra strategia.  Vedi, riguarda tutto l’impegno e la volontà, e l’Iran ne ha già mostrato grazie alla sua vicinanza, alla sua conoscenza geografica, alle sue possibilità d’accesso, al suo carattere spietato e alla sua leadership concentrata, che mostra di volere ottenere risultati (l’intervista è stata fatta prima dell’intervento russo in Siria: immaginiamo che questa risposta ora valga ancora di più). Gli iraniani hanno messo sul tavolo la loro vicinanza, la loro ferocia, l’impegno della loro leadership e i loro interessi vitali e strategici. E sono disposti a tutto sul campo per fare andare le cose come vogliono loro – e noi no. E tutti sanno che l’Iran si prepara a restare là a lungo e nessuno crede di poter contare su questa Amministrazione, o sulla prossima – che non conosciamo ancora. Sono tutti abituati in Iraq a essere traditi. E questa è una di quelle dinamiche che non stiamo risolvendo.

 

Nel 2004 Harvey lavorò anche sul filone degli aiuti che la Siria di Bashar el Assad dava ai guerriglieri e ai terroristi in Iraq, che poi sono diventati lo Stato islamico di oggi. Si tratta di un tema trascurato, che ora però torna ad avere interesse politico. Che tipo di sostegno dava la Siria ai guerriglieri che a partire dal 2003 fecero la guerra agli americani e al governo centrale iracheno?

 

I siriani erano molto d’aiuto e non crearono alcun impedimento ai movimenti dei jihadisti tra Siria e Iraq.  Cinque autobomba che furono lanciate contro una base della polizia nell’ottobre 2003 furono chiaramente il frutto di uno sforzo congiunto tra la Siria, che aiutò a farle arrivare in Iraq, il network jihadista che reclutò e riunì i terroristi suicidi e quelli che definirei gli “elementi militari” della guerriglia che stavano gettando le basi della insurgency. Questo succedeva nell’ottobre 2003, e quindi ci accorgemmo fin da molto presto della collaborazione tra questi gruppi. La cooperazione dipendeva dalle capacità e dalle risorse specifiche di cui ciascuno era in possesso e dai network che operavano sul posto – cominciavano a maturare nell’autunno 2003. E’ stato un processo differente in ogni parte dell’Iraq, ma nella regione di Anbar e nella zona ovest di Baghdad era in fase molto avanzata già allora.

 

Per quanto andò avanti questo appoggio della Siria ai jihadisti iracheni? E cosa si deve pensare degli articoli di giornale che adesso, nel 2015, raccontano che gli ufficiali baathisti sono il centro di comando dello Stato islamico?

 

Il sostegno arrivava da ufficiali dell’intelligence siriana e saliva su fino al direttore di tutte le agenzie dei servizi segreti, il cognato di Bashar el Assad (il generale Assaf Shawkat) e ad altri. Quello che non abbiamo mai avuto è la pistola fumante che collega direttamente Bashar el Assad a tutto questo. Ma c’erano abbastanza prove sul fatto che i siriani monitoravano e seguivano i jihadisti e in qualche caso li facilitavano – ma non si riusciva a identificare con chiarezza la forma d’aiuto. Chessò, per esempio non si riusciva a comprendere se un comandante dell’intelligence siriana nel settore nord stava prestando aiuto ai jihadisti perché stava ricevendo ordini dall’ufficio del presidente oppure dall’intelligence centrale a Damasco. Voglio dire che c’erano sempre alcuni aspetti ignoti, ma era chiaro che c’erano sia ampiezza sia profondità di appoggio ai jihadisti, tramite le diverse agenzie di intelligence e i diversi comandi di distretto, e che era chiaro che c’era sostegno istituzionale da parte della Siria ai jihadisti: per contribuire all’instabilità in Iraq e per sabotare i nostri sforzi laggiù.

 

Per quanto riguarda i baathisti e quello che succede adesso: penso che sia sbagliato dire che ci sono ancora “baathisti” che combattono e fanno parte del cerchio interno dello Stato islamico. Esiste una gamma di gruppi – che vanno da quello comandato dall’ex generale di Saddam, Izzat al Douri (che io non penso sia morto) ad altri, che hanno collaborato con lo Stato islamico. Un buon numero degli uomini di questi gruppi è diventato parte e ingranaggio dello Stato islamico: alcuni nella commissione militare, altri dei network finanziari, altri ancora all’interno della catena di comando e della struttura di controllo dello Stato islamico. Succede per esempio che parecchi di quelli coinvolti nelle attività finanziarie sono ex elementi del regime, sono turcomanni dalla regione di Tal Afar e di Mosul. Per come la vedo io, dovrebbero essere identificati come “resistenza araba sunnita” motivata dal desiderio di far tornare i sunniti al potere – e la religione potrebbe c’entrare o no. Qualsiasi sia il vettore che li trasporta, questi tipi sono molto pragmatici. Poi ci sono i veri credenti, che sono diventati sempre più indottrinati nel corso degli anni. Insomma, preferirei non chiamarli più baathisti.

 

(ha collaborato Shelly Kittleson)

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)