I rappresentanti degli stati membri della coalizione internazionale contro lo Stato islamico (foto LaPresse)

Controllare il cielo e non vincere. La guerra blanda contro il califfo

Gianandrea Gaiani
La strategia della coalizione contro lo Stato islamico presenta alcune falle perché manca la volontà politica di uno scontro decisivo

Roma. Sono trascorsi poco più di cent’anni da quando traballanti velivoli italiani compirono i primi bombardamenti aerei della storia con bombe a mano lanciate con le mani dai piloti sulle truppe turche in Libia. Da allora tutte le guerre hanno visto le forze aeree protagoniste e dalla Seconda guerra mondiale nessun conflitto convenzionale in campo aperto è stato vinto da chi non avesse il dominio dell’aria. Per questo è eclatante quanto sta accadendo nella guerra allo Stato islamico.

 

Non si era mai vista una forza militare priva di aerei da combattimento e di difese antiaeree strutturate riuscire a muovere in campo aperto forze pesanti (carri armati, mezzi corazzati, veicoli e artiglieria) e a condurre con successo offensive su più fronti contro un nemico (la coalizione internazionale anti Stato islamico) che ha il totale dominio dell’aria – è la conferma di quanto sia volutamente blanda la campagna della coalizione. E’ impossibile spiegare altrimenti come nelle ultime settimane i miliziani dello Stato islamico abbiano potuto prendere Ramadi e Palmira attaccando in forze anche nei settori di Aleppo, Hasaka e Tikrit senza essere annientati dagli alleati che in quasi un anno di operazioni hanno avuto tutto il tempo di istituire una rete di monitoraggio dei movimenti nemici basata su satelliti, droni e aerei da ricognizione. Una concreta copertura aerea incentrata sull’attacco al suolo consentirebbe di paralizzare le milizie dello Stato islamico distruggendo i mezzi in movimento inclusi i carri-bomba suicidi Bmp-1 utilizzati per sfondare le linee nemiche. Pur volendo evitare di concentrare le forze e offrire facili bersagli ai jet, i reparti del califfato non sono certo paragonabili alle bande talebane o ad altri gruppi insurrezionali dediti a operazioni mordi-e-fuggi e che offrono solo bersagli sfuggenti ai cacciabombardieri.

 

Le forze del califfato controllano uno stato e dispongono di molti veicoli, mezzi pesanti e artiglieria di preda bellica. Dopo aver conquistato Ramadi hanno persino improvvisato una parata militare in città senza subire alcun disturbo da parte dei cacciabombardieri alleati.

 

Per vincere occorrerebbero forse più aerei anche se degli oltre 200 velivoli da combattimento schierati dagli Stati Uniti e dai paesi della Nato in Kuwait, Emirati e Giordania non ne vengono impiegati più di una ventina ogni giorno su un’area, quella in mano allo Stato islamico, vasta quanto la Gran Bretagna. Negli ultimi giorni di giugno la media è stata di appena 12 incursioni sull’Iraq e la metà sulle postazioni dello Stato islamico in Siria mentre secondo i dati forniti dal Central Command statunitense al 23 maggio scorso erano stati effettuati 2.458 raid aerei sull’Iraq  e 1.593 sulla Siria.

 

[**Video_box_2**]Negli stessi giorni l’Osservatorio siriano per i diritti umani (ong basata a Londra e vicina ai ribelli contro il regime di Damasco di Bashar el Assad) ha reso noto che tra novembre e maggio le forze aeree di Damasco avevano effettuato con aerei ed elicotteri quasi 17 mila incursioni contro le forze ribelli incluse quelle dello Stato islamico, il quadruplo di quelle messe a segno dalla coalizione in un periodo persino più lungo. Non si tratta solo di valutare l’ambiguità degli americani o delle monarchie del Golfo. Anche gli europei, che considerata la prossimità della minaccia dovrebbero essere i primi a preoccuparsi dell’espansione dello Stato islamico, giocano ruoli puramente simbolici in una guerra calibrata al ribasso: i 4 Tornado italiani basati in Kuwait hanno fatto oltre mille ore di volo sul territorio nemico senza sganciare un solo ordigno.

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