Un barcone carico di rohingya viene scortato lontano dalle acque territoriali dalla marina thailandese (foto LaPresse)

Quando la retorica del multiculturalismo, alla prova dei fatti, si traduce in respingimenti

Maurizio Stefanini
Non solo nel Mediterraneo, ma anche nel resto del mondo - dal sud-est asiatico, all'America Latina fino al Sudafrica - tutti si dicono pronti ad accogliere i migranti. La realtà, però, dimostra il contrario.

“Il Mediterraneo del sud-est asiatico”, vengono a volte chiamate le acque attorno allo Stretto di Malacca: una somiglianza che al tempo dell’Impero britannico era accreditata dal ruolo simile che avevano le fortezze di Gibilterra e di Singapore. Quest’ultima, non a caso, era chiamata da Churchill “la Gibilterra d’Oriente”. Ovviamente, si tratta di un’immagine superficiale, ma la cronaca in questo momento sembra ravvivarla, con le vicende convergenti dell’emergenza migranti  in entrambe le aree.  A Bruxelles si sono attivati convocando un vertice dei ministri degli Esteri e della Difesa dell’Unione Europea per decidere la missione navale contro il traffico illegale di migranti nel Mediterraneo. Un’operazione militare resa più urgente dopo i recenti, drammatici naufragi e per la quale i commandos dello Special Boat Services della Royal Navy si stanno già addestrando per affondare i barconi usati dai trafficanti di essere umani in Libia.

 

Allo stesso tempo, è stato convocato per mercoledì a Kuala Lumpur il vertice d’emergenza dei ministri degli Esteri di Malaysia, Thailandia e Indonesia, dopo che in una settimana più di 2,500 bangladesi e birmani di etnia rohingya sono sbarcati sulle coste dei tre paesi. Ma almeno altri cinquemila sono ancora alla deriva nel mare delle Andamane senza né cibo né acqua, dopo essere stati via via respinti da Indonesia, Malaysia e Thailandia in quello che è stato descritto come “un tragico ping pong”. E un altro vertice con i rappresentati di 15 paesi si riunirà il 29 maggio. Mentre in Europa Francia, Regno Unito, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania già si tirano fuori dall’idea di ridistribuire i chiedenti asilo per quote nazionali, in Asia il Myanmar, da cui i rohingya fuggono, rifiuta addirittura di recarsi ai due vertici.

 

È un po’ come nell’Europa dell’est, dove la caduta del comunismo ha provocato, assieme al ritorno della democrazia, il sottoprodotto negativo di nuove faide e odi etno-religiosi secolari. Allo stesso modo, anche in Myanmar l’apertura del regime militare, oltre alla liberazione di Aung San Suu Kyi, ha d’altra parte consentito la ripresa di un ultra-nazionalismo buddhista che si è sfogato in pogrom e violenze contro la principale minoranza islamica, che peraltro già dal 1982 era stata privata della cittadinanza. Ma il governo di Yangon si chiama fuori, negando ogni responsabilità per la crisi. “Non ignoriamo il problema, ma non accettiamo l’accusa di essere alla sua origine”, dicono dalla Presidenza. Secondo loro, la colpa è invece “della debolezza della prevenzione del traffico di esseri umani e dello stato di diritto in Thailandia”. Thailandia che però dice di non poter accogliere più nessuno, anche se potrebbe proporre una “area di transito” provvisoria.  

 

Come nel Mediterraneo si mescolano rifugiati politici ed economici, però, anche nei mari del sud-est asiatico ci sono i rohingya, in fuga dai pogrom e che richiedono ospitalità in un altro paese islamico, e i bangladesi che tentano di sottrarsi alla povertà. Almeno 100 mila rohingya sarebbero fuggiti da Myanmar negli ultimi tre anni.

 

[**Video_box_2**]Gli Stati Uniti hanno lanciato l'appello a non abbandonare i migranti in mare. In casa loro, però, gli americani hanno fatto arrestare hanno espulso dalla Border Patrol 229.178 irregolari messicani e 257.473 centroamericani, secondo le ultimissime statistiche rese note nel 2014. Ma anche l’America Latina è a sua volta in piena emergenza. Il Venezuela di Maduro, con tutta la sua retorica latino-americanista, negli ultimi tre anni ha espulso 7,021 colombiani: 3,571 solo negli ultimi due mesi. Il governo di Bogotá protesta, quello di Caracas risponde che tra il 2012 e il 2014 in Venezuela sarebbero entrati 494,597 clandestini colombiani, ma la stessa Colombia dice di aver fermato in due anni 4,257 stranieri illegali mentre cercavano di entrare nel suo territorio. Tra di loro 1,994 cubani, 456 nepalesi, somali, bangladesi, pakistani, ghanesi.

 

E poi c’è il Sudafrica, un altro paese dalla retorica multiculturale e multietnica dove la situazione per gli immigrati è diventata però difficile. Malgrado le assicurazioni del governo agli stranieri, adesso sono stati appena deportati 400 mozambicani. Insomma, il problema sta diventando sempre più planetario.