Un militare dei separatisti filorussi a Lugansk (foto LaPresse)

Nel Far West di Lugansk

Andrea Sceresini

Nella Repubblica dell'est ucraino l'economia è a pezzi e ci sono troppi miliziani, anche un italiano. La città è devastata dalla guerra e Kiev ha tagliato l'acqua calda così come il pagamento delle pensioni. Tutti gli aiuti arrivano dalla Russia.

Lugansk (Ucraina). L'unico albergo ancora aperto è un vecchio palazzone sovietico di venti piani. All'ingresso ti accoglie un miliziano armato, con una cicatrice in faccia e il kalashnikov sempre a tracolla. Buona parte della clientela è composta da soldati: le stanze sono affittate a ore, un'intera notte costa cento grivne, meno di quattro euro. Sul muro esterno, tra i calcinacci e le schegge di granata, è stata appesa una réclame commerciale: “Acquistasi capelli femminili”. Chiunque fosse interessato è invitato a presentarsi il tal giorno nel tal negozio, dove in pochi minuti verrà eseguito il taglio. E' una pratica sempre più diffusa: gli acquirenti sono numerosi e pagano abbastanza bene. Le chiome vengono spedite in occidente e trasformate in parrucche.

 

In tempo di pace, Lugansk contava mezzo milione di residenti. Oggi, a dieci mesi dallo scoppio della guerra in Ucraina, buona parte delle case si sono ormai svuotate. Circa metà degli abitanti ha deciso di trasferirsi altrove: in Russia il più delle volte, oppure verso ovest, nei territori controllati dai governativi. Al loro posto sono arrivati i miliziani: migliaia di uomini, provenienti da tutto l'ex impero sovietico.

 

Così, in appena un anno, questo centro industriale del Donbass orientale si è trasformato nella Gotham City del separatismo filorusso. Buona parte degli edifici pubblici è stata trasformata in caserme. Le auto militari viaggiano senza targa, con le quattro frecce sempre accese: secondo il nuovo codice della strada, hanno diritto di precedenza. Ogni battaglione risponde esclusivamente ai propri ufficiali, che spesso sono in lotta tra loro. Le faide più violente sono spesso risolte con il mitra.

 

Fece molto scalpore, nel gennaio scorso, la morte del comandante Alexander Bednov, leader del potentissimo battaglione Batman, che fu massacrato nel corso di un’imboscata assieme a tutto il suo stato maggiore. I colpevoli non sono mai stati individuati, ma non vanno ricercati tra gli ucraini. Bednov – stando a diverse indiscrezioni – era entrato in un racket decisamente fruttuoso: quello degli aiuti umanitari provenienti dalla Russia. Perciò sarebbe stato fatto fuori, probabilmente per ordine di qualche rivale. A Lugansk l'estrema povertà, unita alla presenza di uomini armati e alla prospettiva di facili arricchimenti, ha trasformato la città in un Far West in salsa putiniana.


Combattenti filorussi a Lugansk (foto LaPresse)


Il governo dell'autoproclamata Repubblica popolare di Lugansk è retto da un ex comandante militare, il cinquantenne Igor Plotnitsky, che alle elezioni del novembre 2014 ha surclassato i candidati rivali con il 63 per cento dei consensi. Il suo volto grassoccio campeggia su centinaia di poster lungo tutte le vie della città. Del suo passato si sa pochissimo. E' nato nel villaggio di Kelmentsi, vicino al confine con la Moldavia, ha servito come ufficiale nell'Armata Rossa e ha lavorato per l'Ispettorato regionale per la tutela dei consumatori. La sua uscita più notevole è di quattro mesi fa, quando, con una lettera aperta pubblicata sulla stampa locale, ha sfidato a un duello in diretta televisiva il premier ucraino Petro Poroshenko. “Il vincitore detterà le proprie regole allo sconfitto – recita la lettera presidenziale. Dopodiché si giungerà alla pace”. Non sappiamo come abbia reagito Poroshenko: di certo, la pace non è ancora arrivata.

 

In città vige il coprifuoco notturno: dalle undici di sera alle sei di mattina nessuno può mettere piede fuori casa. I negozi sono in buona parte chiusi, così come i ristoranti e i bar. Gli uomini della “Kommendatura”, la polizia militare, pattugliano le vie deserte. Quasi tutti i quartieri sono stati colpiti dai bombardamenti. Il paesaggio urbano è un mix di bossoli vuoti, schegge arrugginite, spazzatura e cani randagi. Per lunghi mesi sono mancate sia l'acqua calda sia l'elettricità. Nell'autunno scorso il governo di Kiev ha smesso di versare gli stipendi pubblici, i sussidi e le pensioni. Molti anziani sono ridotti all'accattonaggio: li vedi vagare aggrappati ai bastoni, la mano perennemente aperta e una flebile litania alla bocca: “Dengi, pozhaluysta”. Denaro, per favore.

 

Svetlana Alioshena è una deputata del nuovo Parlamento separatista. Cinquantadue anni, unghie smaltate, pantaloni verde mimetico, guanti di pelle nera. Il suo ufficio, al primo piano del palazzo del governo, è decorato con bandierine russe e vecchi poster dell'èra sovietica. In una gabbia per canarini, proprio di fronte alla scrivania, c'è una grande pantegana bianca, i cui squittii fanno da sottofondo a ogni riunione. “Il commercio è ormai morto – dice la parlamentare – Gli unici aiuti arrivano dalla Russia, e sono distribuiti gratuitamente ai più bisognosi. Abbiamo allestito decine di mense popolari, dove ogni giorno vengono serviti migliaia di pasti caldi. Ci stiamo attrezzando per mettere in piedi un nuovo sistema pensionistico, completamente autonomo da Kiev. Non è facile, ma ci proveremo: nell'attesa, ci tocca tirare la cinghia”.


Un sacerdote ortodosso con una bandiera russa per le strade di Lugansk (foto LaPresse)


Il fronte di battaglia si trova a una quindicina di chilometri dalla città. Nelle pause tra uno scontro e l'altro, i miliziani si danno appuntamento nei pochi pub rimasti aperti, tra i semafori lampeggianti della centralissima Radianska street. Ci sono i volontari cosacchi, con i loro berretti di pelo scuro. Ci sono i russi, i ceceni, gli armeni. A un tavolino d'angolo, di fronte a una brocca colma di vodka, siedono cinque militanti del partito nazionalbolscevico: vengono da Mosca ed esibiscono una spilla col simbolo della loro organizzazione – una granata nera su sfondo rosso. Sono tutti molto eccitati, e non soltanto per l'alcol. Il poeta underground Eduard Limonov, leader del movimento, arriverà in città tra qualche giorno. L'evento è atteso con una certa ansia, specie tra i volontari più politicizzati. Il loro credo è un miscuglio di ultra-nazionalismo russo, retorica stalinista e una generica smania di menar le mani.

 

Tra loro c'è anche un italiano, il lucchese Andrea Palmeri: trentasei anni, ex militante di estrema destra, già condannato per associazione a delinquere, percosse e lesioni. “Sono arrivato qui nell'agosto scorso – racconta – Parlavo poche parole di russo, ma da queste parti non si guarda troppo per il sottile: mi hanno spedito quasi subito in prima linea. Di armi ne avevamo poche, così abbiamo deciso di razziare i musei della Seconda guerra mondiale. Il mio primo giubbotto antiproiettile consisteva in un pacco di vecchi libri tenuti insieme con del nastro adesivo. E' stata dura: per oltre tre mesi non sono riuscito a farmi una doccia”.

 

Accanto a lui, appoggiato al bancone del bar, c'è un immenso quarantenne moscovita con i denti d'oro. Si chiama Andrei, dice di lavorare nel campo del business e ha le mani ricoperte di tatuaggi: sono il marchio di fabbrica degli “zek”, i nuovi galeotti dei gulag post sovietici. “Qui da noi c'è un po' di tutto – dice Palmeri – Combattiamo contro il mondialismo americano, contro Obama e contro Bruxelles. La nostra rivoluzione parte da quaggiù: spero che un giorno arrivi anche in Italia”. Oltre la vetrina, tra i palazzi scheggiati di Radianska street, si sente un rumore di cingoli: è una piccola colonna di carri armati. I tank passano sotto gli occhi dei pochi passanti. Una ragazza – forse studentessa universitaria – sorride di fronte al nostro stupore: “Normalna”, dice. E' tutto normale.

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