Elio Franzini, rettore della Statale di Milano (Ansa)

Editoriali

Meglio la chiamata diretta dei finti bandi

Redazione

Lo scandalo un po’ bolso della Statale e il vero problema del sistema

La notizia dell’indagine sul rettore dell’Università Statale di Milano Elio Franzini, trapelata su Repubblica e Fatto, nasconde in realtà un’ipocrisia tutta italiana. Alla base dell’inchiesta starebbe infatti l’accusa di avere perpetrato condotte contro la Pubblica amministrazione in relazione a due bandi di concorso per professori ordinari di Urologia, che sarebbero stati indetti secondo “un’ottica spartitoria” addirittura fondata su uno “scambio corruttivo”. Vedremo a quali conclusioni perverrà la giustizia; se, come in numerosi casi simili, una futura sentenza smorzerà i toni o addirittura smentirà la ricostruzione. Fatto sta che, di là dallo scoop un po’ bolso, siamo probabilmente di fronte a due esemplari dei tanti bandi ritagliati su misura per uno specifico candidato, contromisura cui gli atenei italiani ricorrono spesso essendo preclusa la possibilità dell’assunzione diretta.

 

Il paradosso è che l’assunzione diretta garantirebbe molta più trasparenza, in quanto sarebbe espressamente volta a preservare ciò che si tenta di ottenere surrettiziamente coi bandi cosiddetti “truccati”: da un lato la continuità di servizio presso le università, dall’altro (ciò che più conta) la coerenza dei gruppi di ricerca. Chiamerebbe inoltre tanto l’ente quanto gli individui a una maggiore assunzione di responsabilità. Eppure l’assunzione diretta, che nel settore privato non è sinonimo né di spartizione né di corruttela, fa venire i vapori ai benpensanti ogniqualvolta lo si associ al sistema dell’istruzione: è stato così quando Matteo Renzi aveva timidamente tentato di introdurlo con la Buona scuola, sarà così tutte le volte che si proporrà di semplificare l’iter per le cattedre universitarie – o per i posti da ricercatore – senza dover ricorrere alle contorsioni di bandi bizantini che ritraggono il vincitore guardandosi però dal nominarlo. Vuol dire che non vogliamo far funzionare meglio università e ricerca. Preferiamo sospettare sempre e scandalizzarci a intervalli regolari.