(foto di Lucrezia Granzetti/NurPhoto via Getty Images)
SI VIS PACEM, PARA OFFICINAM
Perché l'Italia deve smettere di vergognarsi della sua industria della difesa
L’industria italiana della difesa è una delle poche, autentiche eccellenze tecnologiche del paese, in un momento storico in cui è più che mai necessaria. Ma deve difendersi dalla burocrazia finanziaria “etica” e dalla delegittimazione culturale
Se c’è un tratto distintivo che caratterizza l’attuale Zeitgeist italiano, è una certa schizofrenia esistenziale, un bipolarismo politico e culturale che si manifesta con violenza sismica quando si tocca il nervo scoperto della Difesa. Da una parte, viviamo immersi in una realtà geopolitica che ha smesso di bussare educatamente alla porta della storia per sfondarla a calci: l’invasione russa dell’Ucraina, la polveriera mediorientale, le tensioni nel Pacifico. E’ il mondo della “difesa necessaria”, della deterrenza come unica moneta spendibile per acquistare sicurezza. Dall’altra parte, sopravvive e prospera, nelle redazioni dei giornali mainstream, nelle aule universitarie occupate e nei consigli di amministrazione delle banche terrorizzate dal rating reputazionale, una narrazione che vorrebbe l’Italia immacolata, disarmata e neutrale, una sorta di Svizzera del Mediterraneo ma senza gli orologi meccanici e i caveau blindati. Proviamo a dissezionare questa contraddizione, analizzando lo stato dell’arte dell’industria italiana della difesa nel periodo cruciale che va dal 2020 a oggi. Non è un esercizio di contabilità bellica, ma un’operazione di verità su un settore che rappresenta una delle poche, autentiche eccellenze tecnologiche e industriali del paese, capace di competere alla pari – e spesso di vincere – contro i colossi statalisti francesi, i giganti americani e la burocrazia tedesca. I dati, frutto di un’analisi incrociata tra le relazioni parlamentari Uama, i database del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) e i bilanci dei grandi player nazionali, raccontano una storia di successo. L’Italia, nel silenzio quasi colpevole dei media generalisti, è diventata il sesto esportatore mondiale di sistemi di difesa, registrando tassi di crescita che umiliano i nostri partner europei. Eppure, questo “Rinascimento armato” avviene sotto il fuoco amico di un “pacifismo ideologico” – per usare la felice definizione del ministro della Difesa Guido Crosetto – che, unito a una interpretazione dogmatica e autolesionista dei criteri Esg (Environmental, Social, and Governance), tenta di strangolare nella culla l’unica industria in grado di garantire la sovranità, e quindi la libertà, della nazione.
Proviamo a esplorare le fonderie high-tech di Leonardo, i cantieri navali di Fincantieri che disegnano la talassocrazia del futuro, le camere anecoiche di Elettronica dove si combatte la guerra invisibile dello spettro elettromagnetico, con un taglio critico verso chi, confondendo l’etica con l’estetica del “buonismo”, vorrebbe trasformare l’Italia in un attore geopolitico irrilevante, incapace di proteggere i propri interessi e di onorare le proprie alleanze.
Anatomia di un boom:export +138 per cento
Per comprendere la portata del fenomeno, bisogna partire dai numeri, che hanno la sgradevole abitudine di essere refrattari alle opinioni. Il periodo 2020-2024 segna uno spartiacque. Mentre l’Europa si svegliava dall’illusione della “fine della storia”, l’industria italiana era già in marcia, posizionandosi come fornitore di sicurezza privilegiato per le aree più calde del pianeta.
Secondo l’ultimo rapporto del Sipri, nel quinquennio 2020-2024 l’Italia ha registrato una crescita del volume delle esportazioni di armi pari al 138 per cento rispetto al periodo precedente (2015-2019). Questo dato è impressionante se letto in comparazione. E’ la crescita più alta tra i primi 10 esportatori mondiali: ha permesso all’Italia di scalare la classifica globale, passando dalla decima alla sesta posizione, superando potenze tradizionali e consolidando una quota di mercato globale del 4,8 per cento. Questo risultato non è piovuto dal cielo. E’ il frutto di una strategia industriale e politica che ha saputo intercettare la domanda di modernizzazione militare proveniente da due aree specifiche: il medio oriente e, più recentemente, l’Asia-Pacifico e l’Europa orientale. Dove finiscono questi sistemi di difesa? L’analisi delle destinazioni è la cartina di tornasole della politica estera italiana, improntata a un principio di realismo che spesso fa storcere il naso ai puristi dei diritti umani, ma che garantisce influenza e sicurezza energetica. Il 71 per cento delle esportazioni italiane nel periodo considerato è finito in medio oriente. I tre principali clienti raccontano una storia precisa: Qatar (28 per cento), Egitto (18 per cento) e Kuwait (18 per cento). Ma il 2024 segna una novità: l’ascesa dell’Indonesia al primo posto annuale tra i destinatari di licenze individuali, grazie al contratto Fincantieri da 1,18 miliardi per due Ppa. Questo segnala che l’industria italiana ha ormai le gambe lunghe per camminare anche nell’Indo-Pacifico, il teatro del futuro scontro egemonico tra Usa e Cina. Il confronto con i nostri partner europei è tuttora lusinghiero. Berlino ha visto fino al 2024 le sue esportazioni contrarsi o stagnare. L’industria tedesca ha pagato il prezzo di una moralità ostentata che spesso ha nascosto una indecisione strategica, solo recentemente messa in discussione da Merz. La Francia cresce (+47 per cento), trainata dal successo del caccia Rafale (venduto in Egitto, India, Emirati), ma cresce meno dell’Italia in termini relativi. Il Regno Unito, post Brexit, fatica a trovare una nuova collocazione, mantenendo posizioni stabili ma senza l’esplosività italiana.
Oltre il “ferro”, la tecnologia
L’errore più comune dei detrattori è pensare all’industria della difesa come a un accumulo di metallo pesante e ciminiere fumanti. La realtà delle “eccellenze” italiane è fatta di camere bianche, algoritmi di intelligenza artificiale, materiali compositi e sovranità digitale. Sotto la guida dell’amministratore delegato Roberto Cingolani, felice connubio di un fisico prestato al management (ma anche viceversa), Leonardo ha accelerato la sua trasformazione da conglomerata industriale a Global Security Company. Non si tratta solo di un rebranding cosmetico, ma di un cambio di paradigma: la guerra moderna non si combatte solo con il “ferro”, ma con i dati, lo spazio e la cibernetica. La vera rivoluzione è nell’integrazione. L’acquisizione del controllo totale di Telespazio segnala che lo spazio è diventato un dominio di guerra a tutti gli effetti. Il progetto “Michelangelo - The Security Dome”, svelato da Cingolani, è l’incarnazione di questa visione: una cupola digitale che integra dati satellitari, droni e sensori terrestri per monitorare e proteggere le infrastrutture critiche. Non è fantascienza, è la situational awareness che serve per difendere un gasdotto, una frontiera o una città dai droni nemici. L’alleanza strategica con Knds (il consorzio franco-tedesco dei carri armati) firmata a fine 2025 dimostra inoltre che Leonardo non intende subire il consolidamento europeo, ma guidarlo, ponendosi come partner paritario nella costruzione del futuro carro armato europeo (Mgcs) e garantendo che l’elettronica a bordo parli italiano. Se Leonardo presidia i cieli e l’etere, Fincantieri domina il mare. L’azienda guidata da Pierroberto Folgiero ha dimostrato una capacità unica di adattare il prodotto alle esigenze geopolitiche del cliente, agendo come vero e proprio braccio operativo della Farnesina. La vendita di due Ppa (Pattugliatori polivalenti d’altura) all’Indonesia per 1,18 miliardi è un capolavoro di pragmatismo. Giacarta aveva bisogno di navi subito per fronteggiare l’espansionismo cinese. Fincantieri, con l’avallo della Marina militare italiana, ha dirottato due unità già in costruzione per l’Italia, garantendo tempi di consegna impensabili per qualsiasi altro cantiere occidentale. I Ppa sono navi rivoluzionarie: prua “a rostro” per fendere le onde, velocità da aliscafo (32+ nodi), modularità che permette di passare da “traghetto umanitario” a “cacciatorpediniere lanciamissili” in poche ore. E’ l’ingegneria navale italiana al suo apice. La recente cancellazione di quattro fregate classe Constellation da parte della US Navy non è un insuccesso del design italiano, ma il limite del procurement americano, incapace di acquistare un prodotto off-the-shelf senza volerlo “americanizzare” fino a renderlo irriconoscibile. Fincantieri Marinette Marine in Wisconsin continuerà comunque a costruire le prime due unità, restando l’unico cantiere straniero a cui il Pentagono abbia mai affidato una nave di prima linea. Una medaglia al valore, nonostante tutto. Nel mondo della difesa, ciò che non si vede è spesso più letale di ciò che si vede. Qui operano due gioielli meno noti al grande pubblico ma molto apprezzati dagli addetti ai lavori. La prima è Elt Group (Elettronica); guidata da Domitilla Benigni, questa azienda romana è tra i leader globali nella guerra elettronica (Ew). Nel 2024 ha registrato una crescita record di ordini. Il suo capolavoro recente è il contratto con il Qatar per il “Unified Ew Center”. Non si tratta di un normale radar, ma dell’intera infrastruttura intellettuale e operativa con cui un paese gestisce lo spettro elettromagnetico. Elt protegge anche il caccia Eurofighter (sistema Dass) e le navi italiane, e con la controllata Cy4Gate presidia il dominio cyber. La diversificazione nella Biodifesa con E4Life (tecnologia nata per sanificare l’aria dal Covid, ora applicata alla difesa biologica) mostra una capacità di innovazione laterale che è rara nel settore. La seconda è Mbda Italia, il braccio italiano del consorzio missilistico europeo. Mbda Italia è custode della sovranità missilistica nazionale: il Camm-Er (difesa aerea) e il Teseo Mk2/E (antinave a lungo raggio) sono sistemi che permettono all’Italia di non dipendere esclusivamente dai missili americani, garantendo quella “autonomia strategica” di cui a Bruxelles si parla molto ma che si pratica poco.
Il nemico interno: tassonomia, Esg e il boicottaggio bancario
Mentre l’industria conquista il mondo, in patria deve difendersi da un nemico subdolo e pervasivo: la burocrazia finanziaria “etica” e la delegittimazione culturale. E’ una guerra combattuta a colpi di direttive europee e delibere bancarie. La Commissione europea, strattonata dagli alfieri del pacifismo ideologico, ha tentato a più riprese di escludere l’industria della difesa dalla Tassonomia Sociale, l’elenco delle attività economiche considerate “virtuose” per gli investimenti. L’argomento dei detrattori è di un semplicismo disarmante: le armi uccidono, quindi sono “socialmente dannose” (harmful), al pari del tabacco o del gioco d’azzardo. Questa visione ignora deliberatamente la realtà: la sicurezza è il prerequisito di ogni sostenibilità. Senza un sistema di difesa aerea che protegge una centrale elettrica o un ospedale, non esiste transizione ecologica né welfare state, come tragicamente dimostrato in Ucraina. L’Aiad (Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza) e l’industria europea (Asd) hanno dovuto combattere una battaglia campale per far riconoscere l’ovvio: che l’industria della difesa contribuisce alla “resilienza, sicurezza e pace”, condizioni sine qua non per la sostenibilità sociale. Solo nel 2024/2025, con la comunicazione della Commissione Ue sull’applicazione della finanza sostenibile, si è iniziato a chiarire che la produzione di armamenti non è incompatibile con i criteri Esg, ma il danno culturale era già fatto. La conseguenza pratica di questa incertezza normativa è stata il credit crunch (stretta creditizia) selettivo. Molte banche, terrorizzate dal rischio reputazionale e dalle linee guida dell’Eba (Autorità bancaria europea) che impongono di valutare i rischi Esg, hanno iniziato a negare servizi finanziari alle aziende del settore, specialmente alle Pmi che non hanno la forza politica di Leonardo. E’ il fenomeno del de-risking: per evitare che una campagna di una Ong accusi l’istituto di essere una “banca armata” , i compliance officer preferiscono chiudere i rubinetti del credito. Questo atteggiamento contagia le grandi banche sistemiche, che pur avendo policy più sfumate sono costrette a muoversi con estrema cautela, e crea un problema di sicurezza nazionale. Se le aziende che producono i giubbotti antiproiettile o i radar per l’Esercito non possono accedere al credito, la filiera si blocca. Come ha sottolineato Guido Crosetto, c’è un’ipocrisia di fondo: si chiede alle Forze Armate di difendere il paese, ma si tratta chi fornisce loro i mezzi come un paria morale. Alcune banche rifiutano il settore, ma beneficiano della sicurezza (e della stabilità finanziaria) garantita da quello stesso settore.
La difesa della realtà
Il secondo fronte interno è quello culturale. In Italia, il pacifismo ha cessato da tempo di essere un’aspirazione nobile alla concordia tra i popoli per diventare un’ideologia paralizzante, spesso strumentale a logiche politiche di parte. Il boicottaggio ha raggiunto le aule universitarie. Da Torino a Pisa, da Bologna a Napoli, collettivi studenteschi e talvolta docenti hanno promosso mozioni per interrompere le collaborazioni di ricerca con Leonardo, Israele o la Nato. L’accusa è sempre la stessa: complicità nel “genocidio” o nella guerra. Questo atteggiamento, che il Foglio ha più volte denunciato come “disarmo unilaterale delle democrazie”, è tecnicamente suicida. La tecnologia è intrinsecamente dual-use. Lo stesso algoritmo che guida un missile può guidare un drone per il soccorso alpino; i materiali compositi di un caccia servono per gli aerei civili più efficienti. Boicottare Leonardo significa privare i ricercatori italiani di fondi e competenze, regalando il primato tecnologico a nazioni (Cina, Russia, Iran) che non si pongono questi scrupoli e che non tollerano collettivi studenteschi pronti a occupare i rettorati. E’ il trionfo dell’irenismo accademico: si preferisce la purezza della propria coscienza alla complessità del reale, ignorando che la libertà di protestare è garantita proprio da quegli “strumenti di guerra” che si vorrebbero abolire. In questo panorama, il ministro della Difesa Guido Crosetto si è trovato spesso a predicare nel deserto. Le sue dichiarazioni contro il “pacifismo ideologico di maniera” e la denuncia di un approccio che vorrebbe “arsenali vuoti e granai pieni” (dimenticando che chi ha gli arsenali pieni prima o poi si prende anche i granai degli altri, come accaduto in Ucraina) rappresentano un tentativo di pedagogia pubblica. Crosetto ha dovuto combattere contro la demagogia di chi, nell’opposizione come nella maggioranza, accusava il governo di essere “bellicista” per aver onorato gli impegni Nato sulla spesa militare, invocando una “pace” astratta che, nei fatti, assomigliava molto alla resa dell’Ucraina. La costituzione del “Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della Difesa” è un tentativo tardivo ma necessario di ricucire lo strappo tra società civile e mondo militare, spiegando che la Difesa non è un costo, ma un investimento sulla sovranità.
Si vis pacem, para officinam (e finanzia l’industria)
L’analisi dei dati e delle dinamiche del periodo 2020-2025 ci consegna la fotografia di un’Italia a due velocità. C’è l’Italia industriale, quella di Leonardo, Fincantieri, Elettronica, Mbda e delle mille Pmi della filiera. Un’Italia che corre, innova, conquista mercati difficili, stringe alleanze strategiche (Knds, i patti con il Regno Unito e il Giappone per il Gcap) e porta a casa 20 miliardi di ordini l’anno. E’ un’Italia che ha capito che il mondo è cambiato e si è attrezzata per sopravvivere nella giungla geopolitica. Poi c’è l’Italia culturale e finanziaria, o almeno una sua parte rumorosa. Un’Italia che vive ancora nel sogno kantiano della pace perpetua, che gioca a fare la virtuosa con i soldi del Monopoli della “finanza etica”, che boicotta la ricerca per sentirsi moralmente superiore. La sfida dei prossimi anni non sarà solo tecnologica o industriale, ma culturale. Se l’Italia vuole mantenere il suo rango di sesta potenza esportatrice e di attore geopolitico rilevante nel Mediterraneo, deve risolvere questa schizofrenia. Deve smettere di vergognarsi della sua industria della difesa. Deve dire chiaramente che vendere una nave all’Indonesia o un radar al Qatar non è un “affare sporco”, ma un atto di politica estera che rafforza la stabilità internazionale e l’interesse nazionale. Deve garantire che le banche finanzino chi produce sicurezza con la stessa solerzia con cui finanziano chi produce prosecco o automobili. L’alternativa è il declino felice: un paese deindustrializzato, disarmato, eticamente purissimo, ma irrilevante, se non servo. Un enorme villaggio vacanze per turisti protetti dalle flotte altrui. E la storia insegna che i villaggi vacanze, quando arriva la tempesta, sono i primi a essere spazzati via.
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