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L'analisi

Manovra, pensioni e demografia: una politica economica senza visione

Marco Leonardi

Se non si ha una visione previdenziale, non si ha una visione demografica. E la demografia è l’unica previsione certa che abbiamo ed è la sfida decisiva del nostro tempo. Affrontarla a colpi di finestre e rinvii indica che non c'è una linea chiara su come governare il paese 

Le pensioni non sono un capitolo qualsiasi della politica economica. Sono il primo e più importante punto di contatto tra demografia e welfare. Ed è per questo che la gestione del dossier pensionistico da parte del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti è rivelatrice di un problema più ampio: l’assenza di una visione su come governare un paese che è passato, strutturalmente e irreversibilmente, dalla crescita alla decrescita demografica. Se non si ha una linea chiara sulle pensioni, è difficile averla su sanità, scuola, immigrazione, fisco e salari. All’ultimo momento il governo ha sentito il dovere di restituire all’industria in crisi di produzione da quasi tre anni i 3.5 miliardi che gli ha sottratto sul Pnrr per via del flop di Industria 5.0. Bene, meglio tardi che mai. Lo ha fatto prendendo parte dei soldi dalle pensioni, ma così facendo ha mostrato un grave difetto di visione su come gestire l’economia con il calo demografico.

 

Nell’ultima legge di bilancio il ministro dell’Economia ha rivendicato prudenza e conti in ordine. E’ vero. Ma il modo in cui ci è arrivato racconta una politica fatta di aggiustamenti contraddittori. Da un lato il governo ha speso circa un miliardo di euro per evitare che l’età pensionabile aumentasse automaticamente di tre mesi, come previsto dai meccanismi di adeguamento alla speranza di vita. Una scelta politica esplicita, presentata come tutela dei lavoratori. Dall’altro lato, però, lo stesso governo ha allungato di tre mesi le finestre di uscita, ottenendo nei fatti lo stesso risultato che aveva appena deciso di evitare: si va in pensione più tardi. Si paga per non alzare l’età pensionabile, ma poi si interviene in modo amministrativo per ritardare comunque l’uscita. Non è una riforma, è una contraddizione. Lo hanno fatto solo per cercare inutilmente di salvare la faccia della Lega e della loro fallimentare guerra alla riforma Fornero.

 

La stessa ambiguità emerge nelle altre misure. Opzione Donna è stata progressivamente svuotata fino a diventare residuale, nonostante fosse uno strumento coerente con il sistema contributivo: consentiva di uscire prima accettando un assegno più basso, quindi pagando interamente il costo della scelta. Non un privilegio scaricato sulle generazioni successive, ma una decisione individuale responsabile. Anche la stretta sul riscatto della laurea va nella stessa direzione sbagliata. Si colpisce uno strumento che permetteva di trasformare anni di studio in contributi effettivi, scoraggiando l’investimento in capitale umano in un paese che già soffre di ingressi tardivi nel mercato del lavoro e carriere discontinue. E non importa che abbiano poi dovuto ritirare parte di questo intervento per manifesta insensatezza più che incostituzionalità, importa il fatto che evidentemente non c’è nessuna strategia sulla gestione delle pensioni.

 

Ancora più confusa è l’idea sul Tfr, evocato non come pilastro della previdenza complementare – l’unica vera risposta strutturale in un paese che invecchia – ma come strumento per anticipare l’uscita dal lavoro. Il dibattito sul Tfr piuttosto deve essere diretto verso il Tfr in busta paga per i giovani, siamo l’unico paese europeo e forse al mondo che mantiene un istituto come il Tfr. Il punto, però, va oltre le pensioni. Se non si ha una visione previdenziale, non si ha una visione demografica. E la demografia è l’unica previsione certa che abbiamo. Nascono sempre meno bambini, l’età media cresce, la popolazione in età lavorativa diminuisce. Questa tendenza non si inverte nel tempo utile per i conti pubblici con politiche per la famiglia. Si può solo adattare il sistema di welfare. Questo significa più spesa per sanità e non autosufficienza, mentre la scuola avrà inevitabilmente meno studenti e dovrà essere ripensata in termini di qualità e organizzazione. Significa accettare che, se si vogliono più giovani, l’immigrazione non è una scelta ideologica ma una necessità economica. Tutti dicono di volere giovani, ma poi rifiutano l’unico canale realistico per averli.

 

Anche il sistema fiscale è figlio di un altro mondo. Continuiamo a tassare soprattutto i redditi da lavoro, come se fossimo un paese giovane e senza patrimoni. In realtà siamo un paese con molta ricchezza accumulata, concentrata nelle generazioni più anziane, e redditi bassi per i giovani, che infatti emigrano. Riequilibrare il carico fiscale sarebbe razionale, ma politicamente difficile in un paese che invecchia. Lo stesso vale per le politiche salariali. In un mercato del lavoro anziano e rigidamente ancorato ai contratti collettivi nazionali, è quasi impossibile pagare di più il giovane che serve oggi all’impresa. Non solo per il Ccnl, ma perché una forza lavoro più anziana difficilmente accetterebbe che il neoassunto guadagni più di chi è già dentro. Tutte queste politiche dovrebbero essere ripensate insieme, a partire dalle pensioni. Ma se il ministro dell’Economia non ha una linea chiara nemmeno su questo primo nodo, dove si vuole andare? La sfida decisiva del nostro tempo è la demografia. Affrontarla a colpi di finestre e rinvii non è prudenza. E’ mancanza di visione.