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L'editoriale dell'elefantino
Elkann poteva risparmiarsi il fervorino sulla Juve, e su Repubblica e La Stampa dire: guadagno, spendo, pago, pretendo
La Vecchia Signora è un asset di valore ma non precisamente in senso etico. E nel caso delle due squadre editoriali in dismissione sarebbe meglio limitarsi a dire pane al pane e vino al vino
A voler essere cinici e un tanto spietati bisognerebbe dire che i fratelli Elkann, come i fratelli del bosco, sono esclusi dalla Famiglia, consegnati in comunità, e la madre per giunta non farà con loro il Natale. Il verdetto dei Comitati di Redazione, con il coro ipocrita dell’onorevole sottosegretario di un governo decisamente fascista che lotta per la libertà di stampa e di un certo numero di Maramaldi, volendo anche antifascisti, è univoco: la Bien-pensance di Repubblica e della Stampa, in attesa delle prossime mosse di Del Vecchio, che intanto puccia il biscotto nel Giornale a suo tempo venduto con lungimiranza dal vecchio e caro Cav., augura loro ogni fortuna ma non li vuole più tra le balle, li vede già consumare l’ingratitudine e la colpa a Miami o a Dubai, lontani dall’orgoglio nazional-editoriale. E in molti sono pronti ad accogliere, con le dovute garanzie, l’arrivo di un editore puro, katharósθαρός.
Non ho letto da nessuna parte la temibile verità di mercato, che per lo meno integra la verità ideologica. John Elkann, che non ho il piacere di conoscere, ha certamente molti difetti. Non si capisce se tra queste mende si debba annoverare anche il fatto di aver acquistato l’Economist, un giornale che guadagna un fracco di soldi, è caposcuola del liberalismo internazionale da un secolo e mezzo senza tirarsela troppo, e di aver deciso di vendere due già ambiziosi e a loro modo gloriosi giornali che perdono a rotta di collo, al liberalismo hanno da tempo sostituito l’antisionismo, diciamo così, e se la tirano parecchio. Brutto scrivere queste cose, forse necessario a diradare una certa malagrazia nel commentare le scelte, non tutte incomprensibili, di un principino triste e di una accomandita finita in una malinconica vicenda di “Succession”, una serie venuta male di cui i nipoti, che non hanno messo mano alla sceneggiatura se non in coda, scontano le conseguenze. Calenda è severo ma giusto quando dice che grava sulla compravendita il sospetto dell’abbandono industriale dell’Italia, di una certa idea dell’Italia per lo meno, con la complicità del supereroe del venerdì santificato dagli scioperi a catena. Ma Repubblica, lo si dimentica, era già stata venduta molti anni fa (a Berlusconi) quando era all’apice del suo status di organo dei progressisti, e fu poi recuperata all’editore puro, purissimo, l’Ingegner De Benedetti, da Giuseppe Ciarrapico, stampatore dell’opera omnia di Benito Mussolini, con l’accondiscendente accompagnamento degli onorevoli Andreotti e Craxi, ai quali in circostanze per loro difficili non fu poi concesso quel che si dice l’onore delle armi.
Si ha tutto il diritto di antipatizzare per un editore che ti lascia in mezzo all’Egeo. Mi sarei risparmiato, nei panni di John E., il fervorino sui valori della Juve, la Vecchia Signora che è bensì un asset di valore ma non precisamente in senso etico. Fossi nei suoi panni, prima che la storia si incanaglisca ulteriormente, con tutte le complicazioni di una politica nazionale un po’ ribalda, nel caso delle due squadre editoriali in dismissione mi limiterei, come avrebbe fatto il Cumenda dei miei sogni, a dire pane al pane e vino al vino: guadagno, spendo, pago, pretendo.