Ansa
il fallimento
Sfidare le balle sull'acciaio
Dopo 13 anni di promesse e stallo, il destino dell'ILVA è segnato: lo Stato ha fallito nella gestione e ora non può salvarla, mentre le risorse pubbliche continuano a essere sprecate in un'impresa ormai insostenibile
Il Foglio ha pubblicato una lunga disamina di Stefano Cingolani sui 13 anni della vicenda Ilva, e su come ci si sia ridotti nelle condizioni di stallo da una parte, e sempre continue promesse dall’altra. La mia domanda, ormai da anni, è sempre la stessa. Quando politica, media e sindacati abbracceranno il banale buon senso di capire che non si può continuare oltre questa finzione? Che cosa è successo quando, forse dopo troppo tempo ma non certo 13 anni, gli azionisti di Stellantis hanno capito che Tavares non conduceva l’azienda se non a peggiorare la sua condizione, nelle vendite in America e in Europa come nel rapporto con tutti gli stakeholder istituzionali dell’una e dell’altra riva dell’Oceano? Hanno posto termine anzitempo al suo mandato, e l’hanno sostituito con chi ha il mandato di fermare, cambiare e spesso invertire le scelte del suo predecessore. Che cosa invece succede all’Ilva, ex prima acciaieria europea? Che a 13 anni dai primi sequestri giudiziali si vuol continuare a credere che un futuro possa essere garantito da chi quell’impresa l’ha uccisa. Ovviamente la vulgata popolare è che la colpa sia dei famigerati Riva, i privati che la gestivano facendo utili e investendo in sostenibilità ciò che le regole di allora indicavano. E invece no, a uccidere l’Ilva non sono stati loro, ma lo stato. Non c’è nessun altro paese avanzato al mondo che, di fronte alla transizione ambientale della sua siderurgia, abbia deciso di imboccare la via seguita in 13 anni dall’Italia.
Una colossale babele di misure contrastanti tra sequestri giudiziali a oltranza, valutazioni e autorizzazioni d’impatto ambientale via via successive e sempre contestate, istituzioni locali contrarie a questo e quello e divise al proprio interno tra protrazione dell’impianto e chiusura della siderurgia, e governi nazionali di volta in volta impegnati a dare un calcio alla lattina inventandosi sempre più mirabolanti nuove gare di aggiudicazione degli impianti con la promessa di chissà quali soggetti siderurgici italiani ed esteri pronti a sobbarcarsi i costi divenuti stellari delle perdite dell’azienda, dei suoi debiti ai fornitori, della perdita di clienti fidelizzati, dell’enorme mole di investimenti necessari in residue bonifiche, e vieppiù nello smantellamento dei vecchi impianti e nella realizzazione da zero di nuovi, sia nel caso che il matto investitore proponga la coesistenza tra residui altoforni e forni elettrici, sia invece scelga la via di soli forni elettrici, da alimentare con impianti per il preridotto ma non si sa come, visto che servirebbe per 3-4 milioni di tonnellate annue una quantità di energia elettrica mostruosa e Taranto il rigassificatore mica lo vuole, e il tutto poi continuando a pagare a prezzi folli ETS come l’energia elettrica stessa, e non sapendo dove trovare il rottame di ferro necessario a impianti per il preridotto, visto che già non si trova oggi quel che serve alla siderurgia italiana per il 90% già a forni elettrici.
Nel 2014 si è persa l’ultima occasione d’oro. Il piano Bondi-Mapelli è stata l’ultima realistica possibilità per un’ordinata e graduale transizione tra ciclo integrato a caldo e forni elettrici, sostenibilità ambientale ma anche sostenibilità finanziaria degli investimenti necessari: da tempo, nessun flusso finanziario realizzabile dalla condizione degli impianti attuali dell’ex Ilva a Taranto è in grado di finanziare alcun ciclo di investimenti, non è in grado nemmeno di ripagare costi e debiti. L’ultimo sequestro di Afo1 A Taranto ha desertificato ogni residua possibilità che soggetti industriali veri della siderurgia, non fondi d’investimento specializzati nella rottamazione d’imprese prossime a decozione, si vogliano impegnare a rischiare risorse ingenti in un Vietnam politico-toghe-regolatorio come quello che sull’Ilva ha ballato il suo sabba. Per quanto sia più che comprensibile che il ministro Urso provi a non essere lui, quello che mette la parola fine alla storia dell’Ilva, è irreale continuare a promettere che vedrete, entro Natale o dopo la Befana ecco manifestarsi un coniglio bianco che si sobbarchi un’impresa ormai impossibile. Ha molto più senso fermare la continua emorragia inutile di miliardi del contribuente, mettere termine all’ultima ennesima gestione commissariale, e procedere con realismo allo spezzatino se e solo se ci sono soggetti industriali veri, italiani o esteri, interessati a rami aziendali. Ma senza nuovi addebiti per lo stato. L’unica cosa che dovrebbe fare lo stato è chiedere scusa agli italiani per questo maxi fallimento della politica industriale sua, non del mercato e degli industriali privati che sono stati estromessi. E poiché il fallimento è di stato e investe migliaia di lavoratori, tutte le risorse necessarie per la CIG, il riaddestramento professionale e la ricollocazione dei dipendenti lo stato deve spesarle di tasca sua ricavandole dalla cessione di propri asset mobiliari o immobiliari, non deve chiederle al contribuente.