Foto Ansa
due casi che svelano l'immobilismo nazionale
I freni di destra e sinistra all'Abbondanza: i casi Ilva e Ponte sullo Stretto
Dai forni elettrici mancati agli errori sull'infrastruttura che dovrebbe collegare la Sicilia alla Calabria, la paralisi italiana rivela un sistema in cui i partiti si neutralizzano a vicenda, trasformando ogni grande opera in uno scontro sterile e infinito
"Abundance”, di Ezra Klein e Derek Thompson, è probabilmente il miglior libro scritto negli ultimi anni sui limiti politici della sinistra e della destra davanti alle grandi transizioni del nostro tempo: verde, digitale w industriale. Non è un libro ideologico. E’ un atto d’accusa trasversale. Alla sinistra dice: vi siete trasformati nel partito dei vincoli, dei ricorsi, delle procedure, dei “no” che bloccano tutto, perfino ciò che servirebbe per la transizione ecologica e per avere abitazioni a prezzi ragionevoli. Alla destra dice: predicate crescita, ma negate al tempo stesso il ruolo dello stato, senza il quale nessuna grande trasformazione produttiva è possibile. Il risultato è paralisi: tutti parlano di futuro, nessuno riesce più a costruirlo. Ed è così che in America è arrivato Trump.
In Italia questa diagnosi trova oggi due applicazioni perfette: l’Ilva e il Ponte sullo Stretto. Su entrambi i dossier la sinistra flirta con il blocco: con la chiusura dell’acciaieria in nome dell’ambiente, con lo stop al Ponte in nome del territorio. Ma su entrambi i dossier la destra, una volta arrivata al governo, ha combinato un disastro che non ha precedenti. E il combinato disposto tra veti ideologici e incompetenza esecutiva è diventato micidiale.
Sull’Ilva siamo arrivati al punto di parlare apertamente di spezzatino: Taranto separata da Genova, impianti regalati per un euro a fondi internazionali che nulla hanno a che vedere con la siderurgia, che oggi è un mercato globale dominato da pochi colossi in una competizione durissima cinese e indiana. Il “salvatore” che doveva riportare ordine, il ministro Adolfo Urso, rischia di essere ricordato come quello che scriverà la parola fine su una delle ultime grandi industrie pesanti italiane. Non per eccesso di mercato, ma per incapacità di governare politicamente un conflitto che era ben noto a tutti: da un lato una parte della città e della magistratura che volevano semplicemente chiudere la fabbrica, dall’altro un’esigenza industriale che avrebbe richiesto scelte nette, investimenti, protezione strategica. E invece Urso ha mandato via l’investitore internazionale che c’era ed è caduto nelle mani di chi Ilva la vuole chiudere. Ma come poteva mai pensare che mandando via l’investitore privato più importante al mondo, ne avrebbe trovato un altro? E infatti gli ultimi due governi erano stati ben attenti.
L’ipotesi della nazionalizzazione viene evocata come ultima spiaggia, ma paradossalmente Ilva dopo l’uscita di ArcelorMittal è già 100 per cento dello stato. L’esempio francese dimostra quanto il parallelo sia fuorviante: lì ArcelorMittal è saldamente sotto controllo industriale, lo stato interviene con politiche pubbliche e sostegni, ma la nazionalizzazione non è nemmeno sul tavolo, perché sarebbe impossibile e controproducente. In Italia, invece, la nazionalizzazione rischia di diventare l’anticamera della riduzione e poi della chiusura, l’ennesimo parcheggio pubblico verso l’uscita definitiva dalla siderurgia. L’unica speranza – come hanno scritto Firpo e l’ex commissario Lupo su questo giornale – sono i forni elettrici, sapendo che con quella tecnologia a regime l’occupazione deve ridursi del 40 per cento e che i principali concorrenti sono altre aziende private italiane.
Sul Ponte di Messina si ripete la stessa dinamica, in forma speculare. Qui i primi a essere furiosi con Salvini dovrebbero essere proprio quelli che il ponte lo vogliono davvero. Perché è evidente che il ministro ha sbagliato tutte le istruttorie: dalle coperture finanziarie ai passaggi amministrativi, fino alle contestazioni della Corte dei conti che ora costringeranno a mesi, forse anni, di ritardi L’ha fatto di estrema fretta solo per questioni elettorali, per intestarsi il ponte per le prossime elezioni. Il risultato è il solito teatro all’italiana: progetto annunciato, cantieri evocati, blocco giudiziario, nuova ripartenza, nuovo rischio di stop.
Il problema del ponte non è solo tecnico, è politico. E’ ridicolo un paese che annuncia un’opera, la blocca, la rilancia e la riblocca. Per infrastrutture di questa portata serve un consenso trasversale, stabile, che attraversi più governi. Esattamente ciò che nel libro “Abundance” si chiama “politica della costruzione”. In Italia, invece, il governo cerca di sfruttare il ponte come simbolo elettorale permanente, mentre l’opposizione continua a flirtare con chi, di acciaierie e di ponti, vuole soltanto il blocco. Se si tratterà di rifare la gara, si riparta dalla commissione che valutava i nuovi progetti come fu richiesto dallo scorso governo Draghi, si costruisca un minimo di consenso bipartisan, si faccia quel dibattito pubblico che Salvini ha eliminato nel nuovo Codice. Non può essere che ad ogni cambio di governo, invece di costruire il ponte, si paghino solo miliardi di penali. Quelle stesse penali che potrebbero essere l’unica cosa che produrrà Ilva nei prossimi anni.
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