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Macchine Contromano
Volkswagen punta su Pechino per non restare schiacciata
Mentre i campioni cinesi dell'elettrico corrono in Europa o negli Stati Uniti, il gruppo di Wolfsburg sposta il baricentro dell’innovazione a Hefei e scommette su un marchio europeo “premium” dentro un ecosistema di guerre di prezzo e regole asimmetriche
Mentre le aziende cinesi dell’auto elettrica provano a fuggire dall’oceano rosso del loro mercato domestico e puntano tutto sull’internazionalizzazione verso aree a margini più alti, Volkswagen si muove nella corsia opposta, e contromano. Invece di inseguire BYD e simili in Europa o negli Stati Uniti, la casa tedesca scommette ancora sulla Repubblica popolare cinese. E lo fa con un’ipotesi rischiosa: che esista una fascia di consumatori disposta a continuare a pagare un premium price per un marchio europeo dentro il mercato più spietato del mondo, e oramai, per quanto riguarda i veicoli elettrici, anche particolarmente sofisticato.
La mossa della casa di Wolfsburg ha l’aspetto di un all-in: diventare cinese per sopravvivere in Cina. Epilogo ironico, per chi si era mossa sul mercato prima di tutti gli altri, dai tempi della joint venture con SAIC negli anni Ottanta. Con l’elettrificazione del mercato cinese, la quota dei produttori esteri è scesa dal 62 per cento nel 2020 al 35 per cento lo scorso anno. Volkswagen ha perso la leadership come primo costruttore nel paese: nel 2023 ha venduto 2,9 milioni di auto, in calo dai 3,9 milioni del 2020. E i veicoli elettrici venduti sono stati solo circa duecentomila.
La risposta del gruppo tedesco è stata radicale: spostare il baricentro dell’innovazione direttamente in Cina. A Hefei, capoluogo della provincia dell’Anhui, Volkswagen ha aperto un centro con migliaia di ingegneri locali; ha stretto accordi con Horizon Robotics, colosso cinese con sede a Pechino che progetta chip e software di intelligenza artificiale per auto “smart”, e ha acquisito una quota di Xpeng, la Guangzhou Xiaopeng Motors Technology Co., fondata nel 2014 a Guangzhou, per co-sviluppare modelli elettrici. L’obiettivo è accorciare i tempi di sviluppo e soprattutto abbassare i prezzi. Volkswagen non è sola: anche BMW ha creato un team di tremila ingegneri (se ci sembrano tanti, BYD ne ha 120 mila) e collabora localmente con Alibaba e Huawei, mentre Toyota e Honda hanno stretto partnership rispettivamente con CATL una, e DeepSeek e Tencent l’altra.
Il problema è che questa rincorsa avviene in un ecosistema che gioca con regole differenti. I produttori cinesi operano con capitali pazienti, sostenuti in molti casi dallo stato, e possono permettersi anni di guerre dei prezzi pur di conquistare quote. Volkswagen e gli altri moloch dell’automotive restano invece vincolate a logiche di redditività e governance complessa tipiche della maniera di fare business nell’arena competitiva novecentesca: non a caso, il ministro degli Esteri tedesco, Johann Wadephul, ieri era a Pechino, e i cinesi non l’hanno accolto esattamente col tappeto rosso. Il viaggio, peraltro, arrivava dopo il rinvio forzato della sua prima visita sei settimane fa, quando Pechino non aveva neppure confermato gli incontri chiave, nel pieno delle tensioni su Taiwan e delle accuse di “comportamento sempre più aggressivo” nel Mar cinese meridionale e orientale, che Wadephul aveva ripetuto in pubblico.
Nel frattempo Volkswagen promette decine di nuovi modelli elettrici in pochi anni, più economici, più digitali, più “cinesi”. Ma mentre le startup locali aggiornano software e hardware come fossero smartphone (anche perché in alcuni casi fare smartphone è effettivamente l’altra parte del loro business), l’industria europea continua a ragionare con i cicli dell’automobile tradizionale.
Per quanto sfrontata, la mossa del colosso tedesco sembra più un canto del cigno che una strategia basata su assunti solidi. E se fino a qualche anno fa gli ingegneri tedeschi andavano in Cina senza computer per paura di subire dei data breach della loro tecnologia, adesso sono loro a elemosinare know-how dai loro partner: sic transit gloria europae.