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come uscire dalla crisi
Una sola condizione per un vero rilancio dell'Ilva: la riconversione al forno elettrico
Di fronte all’ennesimo decreto d’emergenza e a un impianto che si svuota di produzione e risorse, l’Ilva arriva al suo punto di rottura. Tra illusioni di nazionalizzazione, impianti allo stremo e una crisi che dura da tredici anni, l’Italia deve finalmente scegliere se trasformare Taranto in un laboratorio di rinascita industriale o accettarne il declino definitivo
Il governo ha appena varato un ennesimo decreto Salva Ilva. Decreto curioso perché cerca di far arrivare in extremis nuove risorse pubbliche utilizzando le agevolazioni per le imprese energivore sul presupposto che i complessi aziendali non debbano considerarsi in “stato di difficoltà” nonostante sia da tempo stato dichiarato lo stato di insolvenza di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria.
Insomma, si continua ad affrontare la crisi dell’Ilva con provvedimenti emergenziali e dal contenuto sempre più discutibile. Intanto governa la più totale incertezza: la produzione è ferma o quasi, gli altiforni sempre più logori, la liquidità si sta azzerando, la gara è in stallo, il ricorso a nuova cassa integrazione sembra l’unica opzione sul tavolo. Il rischio concreto è quello di un pericoloso “nulla di fatto”.
La storia dell’Ilva è un lungo viaggio attraverso decenni di industria, politiche pubbliche, emergenze ambientali e conflitti istituzionali. Un “viaggio al termine della notte”, come ricorda uno studio che Assonime ha voluto dedicare alla principale acciaieria d’Italia, fatto di promesse di sviluppo, di crisi, interventi tardivi e soluzioni mancate. Oggi, all’ennesimo bivio, lo stabilimento di Taranto incarna più che mai le fragilità ma anche le potenzialità del sistema industriale italiano. Dal 2012, con il primo sequestro dell’area a caldo per disastro ambientale, la parabola industriale dell’impianto si è inceppata. Da allora si sono avvicendati commissariamenti, amministrazioni straordinarie, accordi con partner industriali poi falliti, continue tensioni tra magistratura e governo, fino alla recente crisi produttiva con livelli minimi storici: meno di 1 milione di tonnellate annue contro le 8,5 del 2007. Una deriva che ha indebolito l’autonomia siderurgica del paese e generato un crescente ricorso alle importazioni di acciai piani, oggi in buona parte provenienti dall’estero.
Accanto alle criticità industriali, resta aperta la partita dell’Autorizzazione integrata ambientale, rilasciata in forma provvisoria e condizionata a centinaia di prescrizioni e mal coordinata con un progetto di decarbonizzazione ancora indefinito perché orientata al mantenimento della produzione da altoforno. La possibile pronuncia del Tribunale di Milano su una class action che chiede la chiusura dell’area a caldo aggiunge ulteriori elementi di instabilità.
Siamo ormai a un punto critico. Dopo l’ennesima illusione che un partner industriale potesse credibilmente farsi carico della riconversione e del rilancio produttivo, oggi ci troviamo solo con due fondi che offrono un euro per gli impianti senza alcun disegno industriale.
Da più parti si invoca la nazionalizzazione. Una invocazione che potrebbe far sorridere non fosse tragica nella demagogia e pochezza di idee che nasconde. Fa sorridere perché chiedere la nazionalizzazione di una azienda che da più di 10 anni è nelle mani dello stato è davvero farsesco. Lo stato è da tempo impegnato in Ilva, lo stato ha dedicato più di 20 decreti legge salva Ilva dal 2012 a oggi considerando “strategico” il sito produttivo; lo stato è impegnato direttamente nell’azionariato di Acciaierie d’Italia con Invitalia quale azionista di maggioranza, impegnato con i commissari nominati dal governo nelle due amministrazioni straordinarie chiamate a “risolvere” la crisi, impegnato nelle continue iniezioni di risorse pubbliche per garantire la continuità aziendale e per la tutela dell’occupazione. Un impegno che purtroppo è stato in troppe occasioni speso per mantenere un sostanziale e costosissimo status quo. La liquidità in cassa è agli sgoccioli e una nuova iniezione da 108 milioni prevista in extremis da un ennesimo provvedimento emergenziale consentirà di andare avanti fino a febbraio 2026. La verità è che ad oggi per la AS costa più produrre che non produrre acciaio. Senza investimenti, senza manutenzioni, gli impianti vanno in malora e arrugginiscono, diventando anche pericolosi. La chiusura e un esito alla Bagnoli non può più essere del tutto escluso. Un esito che potrebbe essere disastroso perché Taranto non è Napoli, non offre le stesse possibilità di riassorbimento della forza lavoro.
Eppure, forse è ancora possibile trasformare un tale fallimento in un laboratorio nazionale di rigenerazione industriale. L’Ilva rimane un asset strategico per il paese: produce laminati piani essenziali per automotive, cantieristica, meccanica; garantisce migliaia di posti di lavoro diretti e un indotto esteso.
La condizione necessaria per un vero rilancio è però una e una sola: la riconversione al forno elettrico. L’esperienza internazionale dimostra che il futuro della siderurgia passa dal superamento del ciclo integrale e dalla progressiva sostituzione degli altiforni con forni elettrici alimentati da rottame e preridotto. Non è un’opzione teorica: è la traiettoria già intrapresa dai maggiori gruppi europei, ed era già stata anticipata dal primo piano architettato dai commissari Bondi-Ronchi più di 10 anni fa. E’ la sola strada capace di eliminare definitivamente le sostanze nocive, ridurre le emissioni climalteranti e rendere competitiva la produzione nel nuovo contesto regolatorio europeo.
Occorrono scelte, quelle finora sempre rimandate, occorrono risorse, idee, e piani industriali con investimenti credibili e sostenibili. La crisi dell’Ilva nasce il 26 luglio del 2012 quando i magistrati sequestrano impianti e magazzino e nel giorno in cui Mario Draghi lancia il suo “whatever it takes”. Oggi a distanza di ben 13 anni quello che servirebbe è qualcuno che dica salveremo e rilanceremo l’Ilva “whatever it takes”. C’è qualcuno che ha il coraggio di dirlo e la capacità di farlo?
Stefano Firpo
direttore generale di Assonime