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Lo spezzatino o un regalo di Natale?

L'Ilva e il suo viaggio al termine della notte

Stefano Cingolani

La crisi, il lavoro e l’ambiente. Giudici, stato e privati: tutti contro tutti. Nuove proposte in arrivo. Urso: “Nessun piano di chiusura”, ma restano tante incognite. Che fine farà l’ex acciaieria più grande d’Europa? La crisi dal 2012: un ripasso

Dopo il declino la caduta, dopo la caduta la chiusura: è questo il destino dell’Ilva? Quante e quali mani l’hanno uccisa? In tanti hanno affondato il coltello come nell’Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie: gli industriali privati, i magistrati di Taranto, quelli di Milano e quelli del Lussemburgo, i sindacati, i demagoghi dell’ambientalismo, i governi, ben otto da quando è scoppiata la crisi nel 2012: hanno speso denaro pubblico e inseguito affannosamente le troppe emergenze. Quanto al ministro Adolfo Urso si è caricato l’acciaio sulle proprie spalle nemmeno fosse Atlante. E non lo è.

 

L’Ufficio studi della Camera dei deputati ha fatto i conti degli ultimi due anni: nel 2024 la società è stata ammessa all’amministrazione straordinaria su richiesta di Invitalia, e la procedura è stata estesa anche alle sue controllate. Il passivo ammontava a un miliardo e 580 milioni di euro. Lo stato ha erogato finanziamenti significativi, tra i quali 680 milioni nel 2023 e 320 milioni nel 2024, oltre a stanziare ulteriori 250 milioni nel 2025 per garantire la continuità operativa. Tutti denari dei contribuenti. Mercoledì scorso Urso è intervenuto alla Camera per rassicurare, in realtà ha messo sul piatto altre incognite senza escludere l’intervento dello stato. Un’apertura per placare gli animi di sindacalisti, ambientalisti, amministratori locali? Il governo vuole nazionalizzare (una scelta che, al di là delle obiezioni di principio, non è in grado di sostenere) oppure intendere essere azionista e garante, ma insieme a chi? I principali possibili soci industriali si sono ritirati, ultimi gli indiani di Jindal e gli azeri di Baku Steel.

 

All’Ilva “non c’è nessun piano di chiusura, anzi l’esatto contrario: attività di manutenzione indispensabili per garantire la continuità produttiva. Inoltre, non è previsto alcun ulteriore ricorso alla cassa integrazione”, così ha parlato Urso. Il 26 settembre, alla scadenza della prima fase della nuova gara, sono state depositate dieci offerte. Due riguardano l’intero complesso aziendale: quella del Fondo americano Bedrock Industries e quella della cordata Flacks Group (britannico) con Steel Business Europe (slovacco). Sono due soggetti finanziari, investono in imprese decotte, raccolte dal cestino della spazzatura. Sette offerte sono invece interessate a singole attività. Si tratta, in particolare, di Renexia (Gruppo Toto), Industrie Metalli Cardinali (IMC), Marcegaglia da sola o in cordata con Sideralba, o con Profilmec e Eusider, Trans Isole e CAR, una srl specializzata in macchinari per levigare cilindri. Si aggiunge poi un soggetto politico – Alleanza Verdi e Sinistra di Taranto – privo dei requisiti di gara, per la cifra simbolica di due euro. Pesa l’assenza di un partner industriale e si profila come scenario lo spezzatino. L’ultimo spiffero è il regalo di Natale: verranno rese note nuove proposte, ci sarebbe un piano segreto di Arvedi tirato per la giacca da anni, mentre a Taranto sono arrivati gli emissari del gruppo che fa capo al miliardario britannico Michael Flacks il quale vorrebbe tutta l’Ilva a prezzo di saldo.

 

Il lungo addio

Per raccontare la saga di quello che fu il più grande centro siderurgico europeo ci vorrebbe un libro; l’Assonime ha fatto qualcosa del genere, con un rapporto di 150 pagine ricco di fatti e di dati certi, ma anche di domande angosciose. Noi ci concentriamo sull’ultima fase, quella che potrebbe diventare la più drammatica, perché il tempo sta davvero per scadere e sale la pressione del partito, trasversale e transazionale, che punta alla “dismissione”, magari per vendere a pezzi gli impianti come avvenne al siderurgico di Bagnoli nel 1989. Allora furono i cinesi e gli indiani ad acquistare, oggi sono loro ad esportare l’acciaio. “E’ mancato un intervento quadro che salvaguardasse il corretto equilibrio tra le diverse esigenze di tutela – scrive l’associazione delle imprese quotate in Borsa –. Non lo fa la magistratura, che per anni mantiene i sequestri nonostante gli ingenti investimenti sull’azienda e il progressivo, ancorché lento, adempimento delle prescrizioni imposte dalle leggi per l’ambiente e la messa in sicurezza della fabbrica. Non lo fanno i governi i quali, con poche e momentanee eccezioni, rimangono più inclini a contenere l’allarme sociale che a condurre in porto una strategia industriale di lungo periodo. Quello che invece è andato platealmente in scena è un conflitto tra istituzioni e poteri tra i più gravi della storia italiana, che si protrae ancora oggi”.

L’Ilva nel 2024 ha toccato il minimo storico di produzione a meno di 2,5 milioni di tonnellate e quest’anno sarà peggio, così è aumentata la dipendenza dalle importazioni di acciai piani in un mercato caratterizzato da forte sovrapproduzione alimentata dalla Cina, senza contare i dazi imposti dagli Stati Uniti pari al 50 per cento sull’acciaio europeo. Per complicare ancor più la trama degli orrori (industriali, giudiziari, politici), nel bel mezzo delle trattative la magistratura dispone un nuovo sequestro di uno dei due altiforni rimasti in funzione (Afo 1), a causa di un incendio scoppiato il 7 maggio scorso. Si vuole far ripartire la produzione da altoforno con un progressivo passaggio al forno elettrico (pagando le quote CO2) o passare subito a una produzione carbon free? Oggi non è assolutamente chiaro. Intanto si attende la pronuncia del Tribunale di Milano sull’azione sollevata da alcune associazioni per ottenere la chiusura della fabbrica. Troppe questioni s’incrociano, quella produttiva, quella ambientale, quella giudiziaria, senza dimenticare i tanti giochi oscuri e i tanti interessi in conflitto che convergono su un solo punto: basta con l’acciaio passiamo alle cozze pelose come disse sei anni fa Barbara Lezzi, ministra pentastellata per il Sud o, meglio ancora, a una gran bella speculazione edilizia. 

 

La questione produttiva

Con una produzione di 21,1 milioni di tonnellate annue (scesa a 20 milioni nel 2024) la siderurgia italiana si colloca al secondo posto nel mercato europeo dell’acciaio, dopo la Germania, e all’undicesimo posto in quello mondiale. Tuttavia, la paralisi dell’Ilva ha trasformato l’Italia da esportatore netto di acciaio a importatore netto per oltre 5 milioni di tonnellate, aumentando considerevolmente la propria dipendenza soprattutto nella fornitura di laminati piani. Tra il 2012 e il 2023 la produzione di laminati lunghi è rimasta stabile (quasi 12 milioni di tonnellate annue) a fronte del calo di oltre un terzo dei laminati piani. Considerando il progressivo ulteriore calo della produzione di Ilva nel 2024 e nel 2025,  il fabbisogno di laminati piani in Italia sarà coperto quasi totalmente attraverso importazioni dall’estero. Gli spazi di mercato sono stati nel frattempo occupati da concorrenti nordeuropei e, soprattutto da cinesi, turchi e indiani, con prodotti certamente meno ambientalmente sostenibili. Già nel 2023 l’Italia risulta la prima destinazione Ue dell’acciaio cinese, con 3,8 milioni di tonnellate importate (oltre un terzo del totale).

 

La questione ambientale

Nel 2012 l’erede dell’Italsider occupava circa 43.000 lavoratori tra dipendenti diretti e indotto, ed era gestita con profitto dal gruppo Riva. Ma dal primo sequestro preventivo dello stabilimento di Taranto, disposto dal giudice per le indagini preliminari, la fabbrica non si riprende più. E’ diventato ormai pacifico che mantenere gli altiforni a carbone è più percorribile e l’acciaio sostenibile dipende in larga misura dalla sostituzione del ciclo integrale con la produzione da forno elettrico. Ciò farebbe aumentare la domanda di rottame in Italia che già oggi importata questo materiale per un terzo del fabbisogno nazionale. L’acciaio secondario, però, non è adattabile ad ogni tipo di produzione vista la sua qualità. Occorre far ricorso al preridotto (DRI) che si ottiene lavorando ferro di alta qualità riscaldato utilizzando gas invece del carbone; il che richiede di aumentarne l’importazione. Si può produrlo usando l’idrogeno, però ci vogliono enormi investimenti e un gigantesco fabbisogno energetico: una tonnellata di preridotto da idrogeno verde richiede 3 milioni di wattora, in un’acciaieria come l’Ilva per 3 milioni di tonnellate annue di acciaio, servono 9 mila miliardi di wattora. Usando solo fonti rinnovabili sarebbe necessaria tutta la produzione elettrica solare italiana del 2023.

 

L’incendio galeotto

Nel pieno sviluppo delle trattative tra i commissari dell’acciaieria e la società Baku Steel, il 7 maggio scorso scoppia un incendio nell’Altoforno 1 a causa della rottura di una tubiera che provoca la fuoriuscita di gas. La procura di Taranto iscrive nel registro degli indagati tre dirigenti dell’ex Ilva per omissione dolosa di cautele sul lavoro, incendio colposo e gettito pericoloso di cose e dispone il sequestro probatorio senza facoltà d’uso dell’altoforno. Occorrono interventi tempestivi – entro 48 ore – per evitare che la colata di ghisa, solidificandosi dopo il sequestro, renda inutilizzabile l’altoforno. Gli interventi non vengono effettuati e comincia il balletto delle responsabilità. Secondo l’azienda la procura non avrebbe concesso le autorizzazioni necessarie in tempo utile; la procura smentisce la società e dichiara che “quasi tutte le attività richieste da Acciaierie d’Italia sono state autorizzate dopo 22 ore”. Nello scontro interviene anche il ministro Urso precisando che “non corrisponde al vero che siano trascorse ‘appena 22 ore’. Al contrario, sono trascorsi ben nove giorni”. Nel frattempo, l’Afo 1 è compromesso con pesanti ripercussioni sul piano industriale e sull’occupazione. Con un solo altoforno in funzione – Afo 4 – la capacità produttiva si riduce a meno della metà di quella già ridotta quest’anno e la cassa integrazione sale di circa 1.000 unità. 

 

Tra Milano e Lussemburgo

Con la stagione dei sequestri si è aperta una crisi profonda. E oggi più che mai la sorte del siderurgico è in mano alle toghe. Il tribunale di Milano deve dare la sua sentenza sull’azione inibitoria promossa da un gruppo di residenti in Taranto e comuni limitrofi, con la quale si chiede la chiusura dell’area a caldo degli stabilimenti e l’assegnazione di un termine di 60 giorni per la messa in sicurezza o, in subordine, la chiusura fino alla completa attuazione delle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale rilasciata nel 2017 e di ogni altra misura successivamente prescritta. L’iniziativa legale si fonda sul presupposto di una violazione “attuale e permanente” del diritto alla salute, nonché del diritto al clima. Il tribunale si è rivolto alla Corte di giustizia europea che con una sentenza ha criticato la legislazione speciale per l’Ilva che ha consentito di svolgere per dieci anni un’attività industriale gravemente rischiosa. Da Lussemburgo la patata torna a Milano: se il tribunale riterrà che il diritto alla salute è stato a lungo violato si chiude baracca, burattini e burattinai. Chi vorrà mai comprare l’Ilva? Non resta che la dismissione.

 

L’ultimo atto

Il sipario si apre sul ministero per il Made in Italy. Il 31 luglio dello scorso anno, Urso avvia la procedura di vendita dell’intero complesso aziendale a un partner industriale solido il quale dovrebbe realizzare con un tocco di bacchetta magica tutto ciò che decenni di politiche industriali e ambientali e di gestioni pubbliche e private hanno mancato di fare. Alla scadenza del 20 settembre, sono quindici le offerte presentate, ma solo tre vincolanti, perché i commissari vogliono vendere tutto, niente spezzatino. Il 14 febbraio scorso, san Valentino, rimangono in gara la compagnia azera Baku Steel Company; l’indiana Jindal Steel International e l’americana Bedrock Industries Management. L’offerta di Baku prevede un miliardo di euro per rilevare il complesso aziendale; investimenti per 4 miliardi di euro e occupazione per 7.800 dipendenti. Jindal offre, invece, 600 milioni di euro, che saliranno a 1 miliardo in fase di rilancio; investimenti superiori ai 2 miliardi di euro (incrementati a 3 miliardi) con la graduale dismissione degli altoforni entro il 2030 e la sostituzione con 2 forni elettrici per una capacità produttiva di 6 milioni di tonnellate annue, alimentati dal preridotto proveniente dagli impianti della società in costruzione nella città di Duqm, in Oman, più un impianto a Taranto da costruire in seguito. L’offerta di Bedrock si limita al solo valore di magazzino, con il capitale che verrebbe via via sostenuto dai futuri guadagni. L’offerta di Baku Steel viene ritenuta la più interessante. Le trattative, tuttavia, si interrompono per gli eventi che abbiamo raccontato.

 

Il governo interviene con un nuovo decreto “salva Ilva” il 26 giugno scorso. Prevede finanziamenti per un massimo di 200 milioni di euro che dovranno essere restituiti entro 120 giorni dalla cessione degli impianti o entro cinque anni se la vendita va a monte. Il 14 luglio si è tenuto il confronto tra il ministro Urso, la regione Puglia, la provincia, i comuni di Taranto e Statte. Il piano presenta  due scenari, uno con produzione di preridotto e uno senza. Il primo scenario prevede una produzione finale di 8 milioni di tonnellate di acciaio l’anno mediante 4 forni elettrici, collocati a Taranto (tre per una produzione di 6 tonnellate) e Genova (1 per la produzione di 2 tonnellate). In sostanza è quello che aveva proposto nel 2014 il commissario Bondi in vista del graduale passaggio (otto anni) al forno elettrico usando nel frattempo il pre-ridotto. Si prevede anche una nave di rigassificazione a Taranto che trova però l’opposizione degli enti locali. Il secondo scenario senza preridotto a Taranto né la nave di rigassificazione, ha costi molto maggiori.

 

C’è una sorta di assedio e non solo politico-mediatico, affinché non si creino le condizioni per vendere a un gruppo industriale privato l’Ilva e farla tornare competitiva. Ma l’acciaio di stato è davvero un’alternativa? L’Assonime non è contraria in linea di principio, tuttavia bisogna vedere come. In ogni caso, occorre un piano a lungo termine con scelte coraggiose di politica energetica e industriale. Il continuo ricorso all’amministrazione straordinaria ha prodotto un vero e proprio abuso nell’utilizzo degli ammortizzatori sociali. Infine bisogna compiere un salto culturale e questo è forse il più difficile: “La vicenda Ilva ha visto un confronto aspro su beni costituzionali rilevanti, quali attività economica, salute, ambiente, lavoro, che si è risolto in una continua contrapposizione. Ci vuole, invece, una visione evolutiva delle tutele, considerando, da un lato, l’ambiente non più come limite all’operatività dell’impresa, ma come fattore di sviluppo e innovazione, e dall’altro rafforzando la cultura d’impresa verso la sostenibilità. Si tratta di un passaggio ineluttabile”.

Intanto l’Ilva non deve morire. 

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