Ansa
La manovra
Governo-Abi, la trattativa per un altro contributo da 600 milioni
Nella trattativa tra Palazzo Chigi e le banche quello che l’Abi sta in tutti i modi cercando di far passare è il principio secondo cui gli accordi si rispettano. E quello raggiunto il 21 ottobre con l’esecutivo andrebbe considerato vincolante per entrambe le parti
Milano. Si è arrivati alle trattative notturne tra l’Associazione delle banche italiane (Abi) e il governo Meloni per definire come rinforzare il contributo economico alla manovra economica. E ieri sera tirava aria di svolta perché, secondo quanto risulta al Foglio da fonti finanziarie, l’Abi era pronta a mettere sul tavolo una soluzione alternativa rispetto all’ulteriore incremento dell’Irap, dal 2 al 2,5 per cento, chiesto da Palazzo Chigi per recuperare ulteriori risorse. Insomma, dal fronte bancario ci sarebbe la disponibilità a erogare i 600 milioni che mancano all’appello attraverso nuovi anticipi di liquidità, secondo modalità non ancora definite nel dettaglio, ma non ad accettare un aumento ulteriore della tassazione dopo l’accordo raggiunto con l’esecutivo il 21 ottobre che prevede un contributo di 9,5 miliardi in tre anni (11,6 considerando anche le assicurazioni).
E’ come se le banche dicessero: se dobbiamo bere un altro calice amaro, ce ne faremo una ragione, ma come buttarlo giù vorremmo sceglierlo noi. Dal governo, si registra qualche apertura a questo approccio, in particolare da Forza Italia, ma per una nuova intesa ci potrebbero essere resistenze da superare. Gli animi sono tesi anche perché questa non facile trattativa si svolge nel momento in cui i rapporti tra il sistema bancario e il governo non sono mai stati tanto controversi.
E’ di qualche giorno fa l’intervista al Sole 24 Ore di Carlo Messina, in cui il ceo di Intesa Sanpaolo chiedeva “maggiore rispetto” per le banche e ricordava il ruolo di sostegno che queste più volte hanno assunto quando si sono addossate quantità di debito pubblico nei periodi di crisi. Considerazioni che a Palazzo Chigi non sono passate inosservate, ma che chissà se produrranno qualche effetto, evitando, ad esempio, che un ministro come Matteo Salvini minacci ogni tanto di rincarare la dose se per caso qualcuno dal fronte bancario si lamenta: bacchettate sulle mani, come nelle scuole d’altri tempi. Un linguaggio inconcepibile nel mondo in doppiopetto dei banchieri. Ma prendersela con le banche per gli “extraprofitti” è una narrazione facile e redditizia in termini di consenso elettorale e sarà difficile convincere chi ne fa una bandiera a rinunciarvi.
A contare, comunque, è la sostanza e al di là dei difetti di comunicazione, quello che l’Abi sta in tutti i modi cercando di fare passare è il principio secondo cui gli accordi si rispettano e quello raggiunto il 21 ottobre con l’esecutivo andrebbe considerato vincolante per entrambe le parti. E’ un impegno assunto che, da parte degli istituti di credito, significa spiegare agli investitori che esistono ragioni ascrivibili al sistema paese per cui bisogna sostenere determinate uscite che incidono su budget e politica d3i dividendi. Tornare dopo poche settimane dagli stessi investitori, per lo più operatori internazionali, per dire “ops, abbiamo scherzato: le uscite sono maggiori”, equivale ad ammettere che in Italia le banche vengono utilizzate come un bancomat dal governo e che non si riesce a mettere un freno ai prelievi. Un’immagine di paese caotico, che sul piano internazionale si contrappone alla riconquistata credibilità attestata dalle agenzie di rating.