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Economia blu rotte, porti e pure yacht. Il ricco mare di cantieri e armatori
Dal commercio al lusso alla difesa, dalla nicchia ai colossi. Le eccellenze e la maestria, i limiti e le sfide dell’Italia si riflettono tutti in acqua. Così gli imprenditori si ingegnano
"Sempre il mare uomo libero amerai / Il mare è il tuo specchio; tu contempli la tua anima / Nello svolgersi infinito della sua lama, / E il tuo spirito non è un abisso meno amaro”.
Chissà cosa scriverebbe oggi Charles Baudelaire guardando dalla Normandia quei colossi d’acciaio pieni di ogni bendidio che fanno rotta verso Le Havre, oppure dalla Costa Azzurra il via vai di alberghi naviganti per croceristi di mezz’età e di superyacht per crapuloni sans souci. Sono uomini liberi, i nuovi signori del mare? Gli armatori che compulsano i tablet come un tempo i brogliacci anneriti di pece e d’inchiostro o i costruttori che al fasciame di legno hanno sostituito le lastre di vetroresina e alluminio, al carbone l’energia elettrica, al petrolio l’energia solare? Versi e domande vengono in mente mentre rolla elegante e appagato al molo della Sanlorenzo a La Spezia il vascello che sembrava così possente e massiccio nel fragore del cantiere dove era stato allestito. Sull’acqua, tra piccole onde benevolenti, in una splendida giornata di sole, sembra un agile delfino in riposo, a terra appare come un pachiderma in attesa di rompere le sue catene. Il superyacht appartiene alla linea Explorer, è lungo oltre 45 metri, batte bandiera delle Isole Marshall piccole oasi del Pacifico a metà strada tra la Filippine e le Hawaii, considerate più radioattive di Fukushima. E’ stato costruito per affrontare anche i ghiacci dell’Artico e le bufere dell’Atlantico, può ospitare un elicottero a poppa o nascondere nella sua pancia un piccolo sottomarino. E’ il vascello per quegli uomini liberi cantati da Baudelaire, per magnati alla ricerca di sempre nuove emozioni, insoddisfatti delle loro ricchezze e a caccia di nuove sfide, o per entrambi? Forse, viene in mente di questi tempi, può mascherare operazioni segrete. Non è dato saperlo. E il “patron” della Sanlorenzo non scioglie i dubbi, non può, non deve, la riservatezza qui è un must. E’ il mare ad aver scelto Massimo Perotti, e lo ha reso più libero? “Chi comincia a lavorare nella nautica non la lascia più”, ci dice. Sì, è l’irresistibile malia del mare. Torinese, studi di economia, ha cominciato alla Azimut allora numero uno italiana negli yacht, poi vent’anni fa ha comprato un piccolo ed elegante laboratorio fondato nel 1958 da due maestri d’ascia e lo ha trasformato in uno dei primi costruttori, senza perdere il tocco esclusivo dell’artigiano, in questa Italia che da sola mette in acqua la metà delle imbarcazioni di lusso prodotte nel mondo intero. Se il modello nazionale è basato ormai sulle nicchie di eccellenza, ebbene la Sanlorenzo lo rappresenta in pieno. Una nicchia certo, ma che è arrivata a un giro d’affari da un miliardo, anch’essa punto di riferimento di quella “economia blu” nella quale l’Italia ha conquistato uno spazio di assoluto rilievo, anche se non è nell’agenda politica, non è nei menabò dei giornali né nei palinsesti televisivi.
Il controllo dell’idrosfera
Il commercio italiano dipende sempre più dal mare, il trasporto via terra resta al primo posto con il 49 per cento del valore, però l’interscambio marittimo negli ultimi vent’anni è aumentato e ha raggiunto quasi il 40 per cento. Questo stivale gettato al centro del Mediterraneo ha una posizione importante nella grande strategia con la quale si gioca il futuro del mondo. Certo, c’è il predominio dei cieli, e chi lo nega, non parliamo poi dello spazio. Ma il pianeta è coperto per il 70 per cento da acqua, il 97 per cento salata, e l’idrosfera vuol dire vita. La Cina che ha passato millenni senza osare attraversare gli oceani, navigando lungo costa con le giunche dalle vele di bambù, nella illusione che il suo Impero di mezzo sarebbe stato per sempre al sicuro, venne conquistata da ben altre vele capaci di prendere gli alisei (e da ben altri cannoni). Oggi per diventare davvero grande la Cina è diventata una potenza del mare: nei cantieri navali o nei commerci è già al top, a luglio la fusione tra China State Shipbuilding Corporation (CSSC) e China Shipbuilding Industry Corporation (CSIC), ha creato il più grande costruttore al mondo con il 20 per cento del mercato, oltre 300 mila dipendenti, più di 300 controllate, superando i principali concorrenti sudcoreani e giapponesi. Ora vuole salire al vertice anche nella Difesa, ha appena varato la sua terza portaerei e lavora già alla quarta a energia nucleare. Ma non è di guerra che vogliamo parlare. E’ di scambi, di lavoro, di piacere, della passione irrefrenabile che tiene Ulisse lontano da Itaca per un decennio, tentato dagli dei, dalle maghe, ma soprattutto perché non era fatto per viver come un bruto.
Non è così scontato e non è nemmeno così noto che l’Italia occupa uno dei primi posti in assoluto nella costruzione di grandi navi con la Fincantieri, nel farle navigare con la Msc, la numero uno al mondo, fondata da un italiano anche se batte bandiera svizzera, o con armatori come i Grimaldi, fino a quelle boutique del mare che sfornano la metà degli yacht venduti nel mondo con la Sanlorenzo e la Azimut in cima testa a testa. Può sembrare una scelta snob, lontana dallo spirito di un tempo populista che da un lato invidia la classe agiata, dall’altro vuol fargliela pagare non perché malvagia, ma perché agiata. Eppure, entrando in cantieri come quello di La Spezia si scopre quanto lavoro, quanta sapienza artigianale, quanta cultura e non solo industriale, viene messa in moto qui, esattamente come nella moda. E’ il tasto su cui batte Perotti nella nostra conversazione. “D’accordo c’è gente che spende cento milioni per una barca, ma si dimentica troppo spesso il lavoro di operai e artigiani, di architetti e ingegneri, di marinai e gente di terra”. E’ un lavoro difficile che richiede la continua ricerca del meglio, nel design, nella cura dei particolari, nelle innovazioni tecnologiche. “Noi italiani in questo campo siamo come i tedeschi nelle auto – spiega Perotti – Abbiamo capacità tecnologiche altissime e in più siamo flessibili, accompagniamo i clienti passo dopo passo, accettiamo anche i loro ripensamenti dell’ultimo minuto. Gli olandesi, i maggiori concorrenti, non consentono cambiamenti fin da sei mesi prima della consegna, noi li accontentiamo fino all’ultimo”.
Secondo i dati del XIII Rapporto Nazionale realizzato dal Centro Studi Tagliacarne e Unioncamere su dati del 2023, l’economia del mare in Italia conta ben 232.841 imprese, 1.089.710 occupati ed è in grado di generare un valore aggiunto diretto pari a 76,6 miliardi di euro, che diventano 216,7 miliardi di euro (11,3 per cento del pil nazionale) se a questo ammontare si aggiunge il valore che riesce ad attivare nel resto dell’economia. Aumentano, infatti, il valore aggiunto diretto (+15,9 per cento), il numero degli addetti (+7,7 per cento) e nel biennio 2022-2024 anche il numero delle imprese (+2 per cento). La crescita italiana in ogni comparto accompagna un boom in tutta Europa. Dal rapporto della Commissione europea, che ha analizzato le performance del settore nel 2021 e 2022, emerge che l’economia blu ha impiegato direttamente 4,82 milioni di addetti (+16 per cento), oltre ad aver generato quasi 890 miliardi di euro di fatturato (+29 per cento) e 250,7 miliardi di euro di valore aggiunto lordo (+33 per cento). L’Italia con Germania, Spagna e Francia è tra i primi quattro, seguono Grecia, Olanda e Danimarca. Cantieristica e turismo sono i comparti che danno il maggior valore aggiunto.
I pilastri del mare
L’intero sistema marino si regge sugli armatori, i costruttori e i porti. I più grandi in assoluto nel trasporto merci sono tre europei. Al primo posto la Msc, tallonata dalla danese Maersk, numero tre la francese CMA-CGM. I cinesi, per ora, arrivano solo quarti con la COSCO, quinti i tedeschi della Hapag-Lloyd. Gli europei, dunque, sono al comando. Nel mondo della borsa e della “turbofinanza”, nell’universo delle public company dove la proprietà è separata dalla gestione, i magnifici re dei cargo sono tre patron all’antica. Gianluigi Aponte viene dalla penisola Sorrentina, risiede a Ginevra, è uno degli uomini più ricchi di Svizzera, ma tutto è chiuso in cassaforte, niente borsa, niente soci, solo famiglia. La A.P. Møller-Mærsk, nata nel 1904 a Copenaghen, è strettamente controllata dagli eredi dei fondatori anche se quotata in borsa. La compagnia francese ha origini antiche, risale alla metà ottocento, però è stata rifondata nel 1978 da Jacques Saadé miliardario franco-libanese, figlio di un imprenditore nato in Siria. Dopo la sua morte nel 2018 la proprietà è passata al figlio Rodolphe, il quale ha il controllo completo. Un sistema antico, che ricorda gli armatori da romanzo, nel mondo post moderno dell’intelligenza artificiale; sono colossi, non imprese di nicchia, eppure hanno l’impronta di un capitalismo d’antan. Msc s’è fatta spazio anche nel circo delle crociere, dove al vertice troviamo gli americani con la Royal Caribbean, che ha una quota di quasi il 15 per cento del mercato, seguita dalla Carnival, terza la Norwegian Cruise e al quarto posto la Msc, che però continua a crescere e a ordinare grattacieli sull’acqua. Più lontana la scandinavo-americana Viking, con sede anch’essa in Svizzera, un paese senza mare dove risiedono due grandi compagnie marittime. La globalizzazione è fatta così e comunque gli oceani non hanno confini.
Il modello privatistico non s’addice ai costruttori. Al primo posto dopo la compagnia statale cinese troviamo il gruppo Hyundai, fondato nel 1947 da Jeong Ju-yung, un contadino povero, oggi fa di tutto dalle auto ai treni, dall’elettronica ai chip, dalla finanza alle navi, insomma uno chaebol modello coreano. Dopo la morte di Jeong nel 2001, contano sempre più la borsa e i fondi d’investimento. Terzo, ma primo in Europa, anzi in occidente, è Fincantieri, il cui azionista con il 71 per cento è la Cassa depositi e prestiti. Ha scavalcato Samsung, altro chaebol, e i costruttori coreani che fino a dieci anni fa sembravano imbattibili, adesso incrocia le armi con i cinesi. Sarà dura, ma la sua scalata al vertice è davvero un successo. Il cambio di marcia avviene con la quotazione in borsa del 2014: allarga il suo portafoglio ordini, firma accordi con la Carnival per le navi da crociera, con China Ship Building per i cargo, finché nel 2017 non vince l’asta per STX principale gruppo cantieristico francese messo in vendita dagli azionisti coreani. Scoppia un putiferio, si piazza di traverso il governo di Parigi, infine si raggiunge un complicato compromesso. Fincantieri consolida la sua leadership occidentale con una rete produttiva di 18 stabilimenti in tutto il mondo e oltre 23 mila lavoratori diretti; mantiene il proprio know-how e i centri direzionali in Italia, dove impiega oltre 12 mila dipendenti e attiva circa 90 mila posti di lavoro. La sua filiera è composta da oltre 14 mila fornitori, tra cui oltre 7 mila aziende italiane. Si tratta in gran parte di piccole e medie imprese specializzate in settori diversi. Un modello che si ripete su scala diversa anche nelle boutique tipo Sanlorenzo. Lo scorso anno Fincantieri ha consegnato a Monfalcone la Sun Princess (per il gruppo Carnival), la seconda più grande nave da crociera mai costruita in Italia, la prima alimentata a gas naturale liquefatto. I carburanti meno inquinanti o verdi sono la nuova frontiera dell’innovazione navale a ogni livello. Questa onda verde trova un vincolo materiale nelle infrastrutture. E infrastrutture vuol dire in primo luogo porti. Quelli turistici che interessano soprattutto a chi fa yacht e a chi li compra, quelli mercantili o i grandi scali polivalenti. Come sta l’Italia? Non bene, potrebbe stare meglio soprattutto se avesse una solida politica portuale.
Gioia Tauro può essere definito un fenomeno che sfida i luoghi comuni. L’attracco nato come ripiego dopo il fallimento della “cattedrale nel deserto”, alias quinto centro siderurgico, è diventato il numero uno nei container sbarcati, staccando Napoli, Trieste, Genova. Ha puntato sul via vai dei giganteschi cargo, anche perché è l’unico con un fondale di 18 metri che consente di accogliere navi lunghe anche 400 metri. Ma questa caratteristica fisica non basta a spiegare il successo. Trainante è stata la scelta di puntare su Msc. Sì, perché il gruppo di Aponte si è caratterizzato in Italia come un vero e proprio operatore integrato, sulla terra (con i treni Italo e la linea merci) e sul mare (compresi i traghetti del Golfo di Napoli). Ha investito molto anche su Genova (acquistando persino lo storico giornale Il Secolo XIX) dove si sta costruendo la diga che consente l’attracco delle mega navi e ha intenzione di fare dell’Italia non solo l’hub del Mediterraneo, ma l’anello di congiunzione tra i traffici con l’Asia che passano per Suez e sono diretti al resto dell’Europa. Perché Genova e Trieste diventino un’alternativa a Rotterdam o ad Amburgo occorre che mare e terra siano integrate, ci vogliono strade ferrate e autostrade. La Liguria, in particolare, è mal collegata con il nord Europa e i trafori in corso vanno avanti lentamente. La chiave, insomma, è sempre nelle infrastrutture, un tasto sul quale batte Perotti dalla sua nicchia d’eccellenza.
La boutique blu
Torniamo alla Sanlorenzo attraverso il cantiere dove sono in costruzione due “ville galleggianti”, con un complesso assemblaggio delle migliaia di parti (una barca di 30 metri ha ben seimila componenti), con i materiali più diversi che debbono combaciare e convivere perfettamente, resistere alla salsedine o alle sollecitazioni enormi date dalla navigazione; ogni dettaglio viene studiato con le lenti del gusto e dell’esperienza. Stile e tecnologia saldati insieme con maestria. Quello di La Spezia è uno dei più grandi tra i cantieri italiani della società e qui c’è il quartier generale dove Perotti lavora. “Non sapevo niente di nautica – ci racconta – ma ero appena laureato in economia quando ho incontrato il più bravo imprenditore nautico del mondo che è Paolo Vitelli, fondatore di Azimut; mi ha preso sotto la sua protezione e mi ha fatto innamorare. Poi a 44 anni avevo voglia di dimostrare a me stesso che potevo farlo anche da solo e ho fatto la pazzia”. Perotti ha comprato la Sanlorenzo nel 2005 quando fatturava circa 42 milioni di euro e oggi si avvicina al miliardo (960 milioni). Come è successo? “In realtà ho fatto per due volte questa scalata. Quando sono entrato in Azimut eravamo 25 dipendenti e 20 milioni di fatturato sono uscito dopo 22 anni e nel 2004 c’erano 3 mila dipendenti con un fatturato da 700 milioni”, dice con orgoglio. Sanlorenzo era un grandissimo marchio, ma piccolo con appena 70 persone, insomma un gioiellino; oggi impiega 1600 lavoratori diretti, 390 sono gli operai della finlandese Swan, la più chic boutique della vela, acquistata nel 2024 da Leonardo Ferragamo, il resto sono tecnici e impiegati, mentre due o tremila lavoratori da aziende terze varcano i cantieri ogni anno. “Siamo cresciuti, ma manteniamo la stessa mentalità. Costruiamo solo 70 barche, la scarsità è un valore, anche in questo c’è il paragone con la boutique. Ferrari fa 12 mila auto, Porsche 200 mila, ma chi possiede una Ferrari ha davvero qualcosa di esclusivo”.
Le prossime sfide proiettano Perotti in una dimensione industriale che va oltre il “fatto a mano”. Tecnologia, sostenibilità, cambiamento climatico, ma anche le svolte nello spirito del tempo e nella politica, tutto passa di qui. “Da economista ho imparato a vendere, ma anche a costruire. Mi ha sempre affascinato il prodotto, da giovane era un fan di Vittorio Ghidella, con le sue auto la Fiat aveva superato la Volkswagen”, racconta. Ma la vela è per molti versi la nuova frontiera. “A Swan is a Swan”, lo slogan pubblicitario dice tutto sull’impresa finlandese più amata dagli appassionati, anch’essa piccola (un fatturato tra i 100 e 200 milioni di euro) ed esclusiva; è il primo marchio al mondo, con la stessa mentalità di Sanlorenzo. E Perotti vuol seguire l’identico modello: crescere, aumentare il giro d’affari e fare finalmente utili, mantenendo lo stesso standard e innovando. “Che cosa c’è di più ecologico che la vela e il vento?”, s’entusiasma. Ma anche le barche a vela hanno un motore di supporto, e qui scatta l’innovazione. “Siamo stati i primi a fare 50 metri nel 2024 con un sistema ideato in collaborazione con Siemens Energy che usa celle a combustibile nelle quali il metanolo verde viene trasformato in idrogeno; produce 100 kilowatt di energia elettrica, il residuo è vapore, quindi acqua che torna nel mare. Applicarla a un maxi Swan vuol dire fare il prodotto perfetto. La domanda di sostenibilità viene dalle nuove generazioni, lo chiedono i figli dei miei clienti che diventeranno tra poco i miei clienti. Se non lo facessi sarei fuori dal mondo”. Già, ma il mondo sta invertendo la rotta sotto la spinta di scelte politiche. E anche Perotti ha dovuto rallentare l’innovazione. Un progetto con motori bi-fuel MAN a metanolo verde e in minor parte a diesel è stata spostata dal 2028 alla fine del decennio. “La tecnologia c’è – ribadisce – però viene ostacolata non solo dalle scelte dei governi, ma dalle infrastrutture, a cominciare dai rifornimenti. Ci vuole volontà politica e impegno finanziario. L’Europa è più sensibile? Io dico che l’occidente è più sensibile e l’occidente ha bisogno dell’America”.
Dalla nicchia alla grande scala il problema resta lo stesso. Difficilmente le navi del futuro saranno completamente elettriche. Soprattutto quelle più grandi, impegnate sulle rotte oceaniche. Ma quelle piccole, come i traghetti e i cargo su rotte più brevi, per esempio sul Mediterraneo e sul Baltico, stanno già diventando sempre più verdi. Nei porti di Anversa, Amsterdam e Rotterdam sono già in azione i primi rimorchiatori elettrici; la navigazione in alcuni fiordi norvegesi è assicurata anche grazie a ferry boat elettrici e ibridi; in Cina e Norvegia sono in costruzione alcuni piccoli portacontainer per trasporti su rotte fluviali. I primi due traghetti ibridi italiani sono entrati in funzione quest’estate, sulla tratta Civitavecchia-Porto Torres-Barcellona per il gruppo Grimaldi, numero uno nel trasporto delle auto vista mare. Le due ammiraglie gemelle Cruise Roma e Cruise Barcelona sono le prime navi del Mediterraneo a zero emissioni in porto, grazie a speciali batterie al litio che entrano in funzione durante la sosta in banchina.
E’ vero che il contributo della blue economy all’inquinamento da CO2 è appena il 3 per cento (quello degli yacht solo lo 0,22 per cento), ma i giganti delle crociere, i cargo pachidermi e gli stessi super yacht sono bersagli più esposti, più visibili, più allarmanti persino. Perotti ha un approccio pragmatico, da imprenditore, senza infilarsi in dispute ideologiche. “Swan è la chiusura di un filo rosso – spiega – che nasce nel 2021 quando i clienti vengono da me e mi chiedono se sto pensando di fare barche che non siano così inquinanti. Abbiamo individuato la Siemens Energy che produceva celle combustibili con idrogeno e ossigeno per i sottomarini, occorreva applicarle a un prodotto ben diverso che stesse sul mercato. Parte il progetto del 50 metri Almax varato nel 2024. Poi c’è la coppa America a Barcellona con il team neozelandese che ha richiesto solo propulsori ad idrogeno che facciano 50 nodi, e noi abbiamo fornito un tender con Bluegame all’American Magic, una collaborazione che ha portato Nautor Swan e Bluegame negli States, a Pensacola in Florida. Oggi è il momento di un 44 metri a vela, alimentato da motore diesel ed elettrico con batterie a idrogenerazione. “E’ stata mia figlia Cecilia a spingere perché comprassi la Nautor Swann, lei è architetto, non ha mai voluto lavorare con me come invece il fratello Cesare, ma con la vela tutto è cambiato anche per lei”. Sanlorenzo è un’azienda di famiglia che dal 2019 è in borsa. “L’ho fatto anche per lasciare i miei figli liberi di scegliere”, spiega Perotti. Tuttavia la quotazione e l’ingresso di manager esterni vivificano l’impresa, per non finire nel circolo vizioso di grandi firme italiane, vendute spesso a stranieri perché vittime della “sindrome dei Buddenbrook” senza eredi che abbiano non solo il talento, ma la voglia, la passione di innovare, di rischiare, insomma di fare impresa.
Così il microcosmo di lusso nel quale ci siamo tuffati conduce al macrocosmo marino, ma anche ai dilemmi del sistema Italia. Politica industriale (“non chiedo certo sconti o sussidi, chiedo attenzione e strategia”, aggiunge Perotti), infrastrutture, innovazione che va stimolata e sostenuta, non ostacolata o addirittura avversata, riconoscimento che l’economia del mare è fondamentale in particolare per l’Italia, dagli yacht ai cargo, dagli alberghi naviganti ai traghetti e soprattutto ai porti senza i quali l’intero sistema si blocca.
Uno specchio magico nel quale si riflettono le questioni di fondo, anche quelle geopolitiche: il salto tecnologico ed ecologico, la competizione e la sfida cinese, la libertà di navigazione in un mondo lacerato dai conflitti. Gli imprenditori si rimboccano le maniche e stanno facendo del loro meglio in questo vasto mare, si aspettano che i governi facciano lo stesso.