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tra scioperi e soluzioni
Il fisco ha fatto abbastanza, per i salari ora tocca alla contrattazione
La vacanza contrattuale ha un impatto significativo sul potere d’acquisto dei lavoratori, soprattutto in un contesto macroeconomico di forte inflazione. La questione ora è di esclusiva competenza delle parti sociali attraverso la contrattazione nazionale e decentrata
Scioperare il 12 dicembre contro il governo perché i salari sono bassi è come esibirsi in danze tribali per invocare la pioggia. Il problema esiste ed è serio. Come è scritto dalla Banca d’Italia nell’audizione sulla manovra: “Tra la fine del 2019 e il secondo trimestre del 2023 le retribuzioni reali orarie nel settore privato non agricolo si sono ridotte di più di 10 punti percentuali, per poi risalire di circa tre punti fino al secondo trimestre del 2025”. Per aggiungere però che: “E’ improprio assegnare al bilancio pubblico il compito di recuperare il potere d’acquisto perduto dai lavoratori, soprattutto quando la redditività delle imprese può consentire che questo avvenga attraverso la contrattazione”. E per concludere che “in prospettiva, la crescita dei salari reali non può che essere sostenuta da un sistema di relazioni industriali ben funzionante e da un rilancio della produttività del lavoro (ridotta di oltre un punto percentuale dalla fine del 2019)”. L’Istat evidenzia, dal canto suo, che “le retribuzioni contrattuali in termini reali a settembre 2025 restano al di sotto dell’8,8 per cento, ai livelli di gennaio 2021”.
Da cosa è determinata questa situazione, che viene da lontano e che non può essere recuperata in breve tempo? Oltre agli aspetti di carattere strutturale (prevalenza di pmi, stagnazione della produttività, ritardi nei rinnovi contrattuali, etc) si è aggiunta negli ultimi anni un’impennata dell’inflazione, provocata da eventi eccezionali, che ha determinato un fiscal drag di 25 miliardi. Ha influito la crisi energetica, a fronte di un meccanismo di rivalutazione delle retribuzioni (Ipca) che ne esclude le dinamiche di incremento. Così i salari definiti anni prima nei contratti nazionali sono stati spiazzati anche a causa della loro durata e dei lunghi tempi di rinnovo: la vacanza contrattuale media nel privato (nel pubblico è di 30 mesi) si attesta a 7 mesi, con settori come chimico e alimentaristi prossimi allo zero, mentre altri, come poligrafici e spettacolo oltre i 36 mesi. La vacanza contrattuale ha un impatto significativo sul potere d’acquisto dei lavoratori, soprattutto in un contesto macroeconomico di forte inflazione.
A riguardo, l’Upb indica che i diversi interventi sull’Irpef degli ultimi sei anni (su struttura delle aliquote, articolazione degli scaglioni, decontribuzione, detrazioni per redditi da lavoro e quelle per oneri dei contribuenti con redditi più elevati, etc.) hanno accresciuto la progressività del prelievo con un’azione redistributiva a favore dei redditi più bassi, da 10mila a 32mila euro, che hanno recuperato il fiscal drag per intero (ottenuto anche qualcosa in più) a scapito di quelli medio alti con differenze di trattamento tra categorie di contribuenti e specie per i lavoratori dipendenti. Sempre l’Upb sottolinea che, nello stesso arco temporale, le famiglie con redditi inferiori a 35mila hanno ottenuto benefici netti per 18,6 miliardi esclusi gli interventi Irpef. Per quanto riguarda, poi, il salario di produttività, sono almeno 15 anni che viene applicato un regime fiscale favorevole, destinato persino a ridursi all’1 per cento con la manovra in corso di approvazione.
Possiamo dire che il fisco, con tutti i limiti denunciati, ha fatto la sua parte nella difesa dei redditi. Restano questioni di esclusiva competenza delle parti sociali attraverso la contrattazione nazionale e decentrata: quanto meno la revisione dei meccanismi del rapporto tra retribuzione e costo della vita e le procedure per i rinnovi contrattuali alla loro scadenza, rivisitando modalità già negoziate ma venute meno a seguito del logoramento delle relazioni industriali. La legge di delega per la giusta retribuzione (l’alternativa del governo al salario minimo legale) già approvata, è in attesa dei decreti legislativi. E’ un programma con obiettivi estremamente ambiziosi, tra i quali l’individuazione dei contratti da applicare erga omnes, la garanzia di trattamenti retributivi complessivi equi, il contrasto del lavoro sottopagato e del dumping contrattuale, l’eventuale intervento sostitutivo del governo nel caso di more eccessive nei rinnovi contrattuali. Ecco i temi sui quali le parti sociali dovrebbero sfidare il governo a rispettare gli impegni assunti, magari proponendo loro intese preliminari su punti specifici. Sarebbe questo il mestiere del sindacato. Tutto il resto è propaganda.