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Il caso

Dopo Salvini e lo smart working un'altra tegola sui ristoranti: l'Ozempic

Michele Masneri

Il farmaco anti obesità, usato da molti come dimagrante, spinge a mangiare meno fuori e potrebbe uccidere la tradizione del pranzo di lavoro

Una delle conseguenze  dell’Ozempic, il farmaco anti diabete utilizzato però come dimagrante segreto  da moltissimi, oltre all’ondeggiare del pil danese, è la  crisi del pranzo fuori. L’Ozempic e i suoi derivati, infatti, avrebbero dato una bella botta alle cosiddette colazioni di lavoro, quelle riunioni in cui si mangia molto e non si conclude niente, però almeno paga l’azienda o il capoufficio. O pagava. Perché in un lungo e preoccupato articolo il Financial Times ha sentito vari ristoratori londinesi secondo cui lo strisciare o “tappare” carte di credito aziendali per questo antico rito è attività in forte calo. “I ristoratori stanno notando meno ordinazioni per antipasti e dolci, e poi più piatti che tornano indietro lasciati a metà”, scrive il quotidiano.  


E la colpa sarebbe proprio della  famiglia di farmaci nota come Ozempic,  che oggi ha tutta una serie di derivati ed equivalenti, gli agonisti del recettore GLP-1. Il principio attivo  è la semaglutide, e altri farmaci confratelli comprendono il Wegovy  e Liraglutide (Saxenda). E poi altri nomi impronunciabili, dulaglutide, lixisenatide ed exenatide. Adesso va molto il Mounjaro, pure quello agonista, ma ufficialmente “irzepatide”, e prodotto dalla concorrente americana Eli Lilly. Si sa che l’impatto di questa categoria di medicinali è impressionante, a partire dall’economia. Le  azioni della danese Novo Nordisk, produttrice dell’Ozempic, per un po’ valevano più del pil dell’intera Danimarca, ma oggi calano per la concorrenza statunitense, e i dazi. Secondo il Washington Post, un americano su otto ha provato questo tipo di farmaci, mentre  il valore dell’intero settore è di 40 miliardi di dollari, e dovrebbe triplicare entro il 2030. 

 

E’ un’economia sommersa, quella dei nuovi magri, quasi una setta. Molti  di coloro che utilizzano l’Ozempic infatti non lo dicono, come conferma al Financial Times un tale chef Tom Brown, del ristorante del  Capital Hotel di Londra, e utente proprio del Mounjaro. “Personalmente, sono molto franco per quanto mi riguarda, ma molti preferiscono la discrezione”. Ma i nuovi magri  sono una minoranza silenziosa, tipo il nuovo centro moderato, o i calendiani (a proposito, che magro Calenda). A tutti noi infatti  è capitato di notare amici e amiche  improvvisamente smilzi, e poi la magrezza porta altri cambiamenti, nuove pettinature e abiti, insomma tutti gli indizi che un tempo  facevano dire: ecco, ha l’amante. Invece no, sta solo prendendo l’Ozempic. Su alcuni/e poi l’improvvisa magrezza sta bene, su altri/e proprio no, sembrano sacchi da boxe improvvisamente sgonfi, divani sfondati, alcuni sembrano invecchiati di vent’anni.

 

Gli effetti poi dell’Ozempic sono diversi da persona a persona; molti giurano che dà proprio la nausea del cibo, e una nausea selettiva: più il cibo è godurioso, più  inorridisci: il caviale, che schifo! Il tartufo, vomito!  Le ostriche, scappo! Certo per i ristoratori questa non ci voleva proprio dopo tutti gli altri guai:  camerieri e cuochi introvabili, aumento delle materie prime, poi anche le nuove leggi del codice della strada salviniano che hanno ridotto tantissimo il consumo di alcolici (da sempre il grande cespite di profitti del settore). Poi ancora lo smart working (parola di invenzione italiana, nei paesi anglofoni si chiama più pragmaticamente “work from home”), per cui se vai in ufficio due o tre volte alla settimana non fai pure la lunga pausa pranzo al ristorante. 

 


Adesso pure i nuovi obiettori della pausa pranzo.  Che potrebbero causare conseguenze anche su quartieri e  città. In tempo di pandemia, si temeva per i baretti del centro, soprattutto a Milano, quelli famigerati per le cotolette dai bordi  arricciati e il roast beef  con le scaglie di grana radioattivo e incellofanato, articoli che nel frattempo sono saliti di prezzo più dell’oro e sono considerati bene rifugio. A Roma invece ci si chiede se i locali attorno a viale Mazzini sopravvivranno alla diaspora degli impiegati  Rai (il palazzo del cavallo rampante è in restauro causa amianto). Il bar Vanni, per anni ritrovo a mezzogiorno del vasto popolo televisivo di Stato, saggiamente sponsorizza ora un festival musicale e letterario per differenziare la clientela.  

 

Il Financial Times è pessimista però sul pranzo di lavoro: del resto proprio qualche tempo fa “Lunch with the FT”, la sua famosa rubrica, cioè un pranzo in cui giornalista e intervistato si sfondano di cibo e alcol, e poi tutto viene riportato sul giornale, con domande e risposte, ma soprattutto prezzi e valutazioni gastronomiche di sogliole e soufflè, è stato sovvertito. L’uomo del giorno era Sam Altman, il fondatore e padrone di ChatGpt, che però ha gentilmente declinato l’invito, e forse pensando di fare cosa gradita si è portato invece a casa la giornalista, a cui ha rifilato delle leccornie preparate da lui sul momento. Il giornale, forse per difendere la tradizione del pranzo fuori, ultimo privilegio della professione, forse d’accordo con la lobby dei ristoratori, non ha per niente apprezzato,  criticando invece aspramente le ricette, e poi   l’olio, i coltelli. E pure la macchina del caffè. 
 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).