
Ansa
L'analisi
La produzione industriale va molto peggio del previsto. La svolta che serve al governo
L’opinione corrente era che la discesa industriale dell’Italia avesse trovato un suo punto di atterraggio, ma così non è stato. Le associazioni dovrebbero trovare il modo di dire a Giorgia Meloni che le policy per la sua Nazione fanno acqua da tutte le parti
Gli analisti più pessimisti si erano fermati nelle previsioni a -0,4 per cento. La produzione industriale di agosto, invece, misurata mese su mese ha fatto segnare -2,4 per cento. Una botta imprevista anche perché l’opinione corrente era che la discesa industriale dell’Italia avesse trovato un suo punto di atterraggio. Più sotto, si pensava di no. Ma è andata così e ora vale la pena ascoltare le voce dei più saggi che raccontano come agosto sia di per sé un mese volatile, come molte aziende abbiano alla chetichella aumentato le settimane di chiusura dei cancelli e soprattutto che il dato di agosto “paga” le vendite anticipate realizzate negli Usa prima che scattassero i dazi. Tutto vero ma non per questo diminuiscono i fattori di preoccupazione.
Emma Marcegaglia, 24 ore prima dei dati Istat, partecipando a un dibattito delle imprese Champions aveva avvertito sui rischi della “desertificazione”. Per l’ex presidente di Confindustria il motivo primo sta nelle dissennate politiche di Bruxelles a cominciare da automotive e siderurgia ma i timori scendono giù per li rami e investono anche le altre filiere. Basti pensare al comparto moda-abbigliamento tessile: nella fascia alta, quella del lusso si è creata una forbice tra prezzi degli abiti e disponibilità del cliente a pagarli mentre la fascia è in corso un’invasione del prodotto cinese attraverso l’e-commerce di Shein e Temu. Il combinato disposto è quello di un settore in crisi ormai strutturale. Dicevamo che la caduta della produzione industriale di agosto è stata più ampia del previsto (-2,4 per cento) e misurata anno su anno dà un risultato simile (-2,7 per cento). E’ il risultato peggiore dallo scorso dicembre e annulla i progressi fatti negli ultimi due mesi. La frenata si è sentita particolarmente nel manifatturiero ma anche nelle attività estrattive e nelle utilities. Anche l’alimentare è calato (-3,2 per cento) e lo stesso è accaduto per la gomma-plastica (-3,1 per cento).
Proiettando questi dati sul Pil si può pensare che nel secondo semestre dell’anno in corso il risultato sia contenuto nel +0,1 per cento a trimestre o addirittura segni lo zero. I riscontri che vengono dai territori sono contraddittori. L’indagine congiunturale su 1200 imprese piemontesi dà un clima di fiducia stabile per il quarto trimestre ‘25 anche se la manifattura ha perso il 5,1 per cento in produzione, il 7,6 in nuovi ordini, l’11,3 in redditività. Per cui le aziende cercano “nuovi mercati alternativi” ma per bocca del presidente Andrea Amalberto non possono che sostenere come “il governo deve credere nell’impresa e nell’industria”. A Brescia non si segnalano casi di chiusura di azienda, la vertenza più importante riguarda l’Iveco che è passata al gruppo Tata e le multinazionali stanno tenendo il campo. La fenomenologia prevalente parla per ora di un netto incremento delle ore di cassa integrazione richieste ma “il quadro tiene”. Facciamo un po’ di kilometri sulla A4 e spostiamoci a Vicenza: le preoccupazioni sono più vive. E’ da nove trimestri che la produzione industriale locale è in negativo e anche per il trimestre che si è chiuso a settembre le prime schede scrutinate parlano di -0,3 per cento. Interi settori, come la concia delle pelli e la moda, sono segnalate in grandi difficoltà e la cassa integrazione avanza.
Unico settore che va in controtendenza è l’orafo ma per quanto prestigioso equivale a una nicchia di mercato. Ad agosto poi in tanti hanno chiuso più a lungo del previsto e i telefoni dell’associazione confindustriale locale sono rimasti a lungo muti. E’ chiaro che a livello di numeri nazionali le crisi di Ilva e Stellantis proiettano ombre sulla tenuta del sistema e autorizzano slogan come quello della desertificazione. Del resto il governo aveva promesso il milione di autovetture prodotte e poi di convincere un esportatore cinese di auto elettriche di venire a fabbricarle qui da noi. Niente di tutto ciò si è verificato e l’argomento è stato derubricato. “La politica industriale – commenta Fedele De Novellis, partner di Ref – è fuoriuscita dall’agenda centrale delle policy, nessuno ci crede veramente e si ha l’impressione che la stessa Ilva sia tutt’al più una rogna. Si parla molto del rating, della stabilità finanziaria ed è giusto ma anche guardando a Trump la riallocazione delle imprese non è una scelta novecentesca, tutt’altro. E’ un pezzo della modernità”. Lunedì la rappresentanza degli industriali sarà ricevuta a palazzo Chigi e si parlerà della manovra di fine anno.
La Confindustria finora ha faticato a far passare l’opinione che sostenere la manifattura è per noi una scelta di sistema, non di una categoria. Può aiutare a invertire la rotta il negoziato Confindustria-sindacati che dovrebbe partorire un documento comune. Può aiutare anche un raccordo con le altre associazioni. Se infatti i corpi intermedi vanno al confronto con Giorgia Meloni uno ad uno la premier se li mangia come pedoni al gioco della dama. Le associazioni dovrebbero avere il coraggio di complimentarsi con Meloni per le coerenze di politica estera e la stabilità finanziaria ma dovrebbero anche trovare il modo di dirle che le policy per la sua Nazione fanno acqua da tutte le parti. Saprà Emanuele Orsini abbandonare la comfort zone del tatticismo e degli incontri riservati e andare all’attacco? Manca poco e lo sapremo.

Nobel per la Pace