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l'analisi
Con l'euro troppo forte si rischiano effetti deleteri sull'economia Ue
Il tasso di cambio può rappresentare un indicatore importante per valutare la stringenza relativa delle politiche monetarie. E il continuo rafforzamento dell’euro segnala condizioni finanziarie potenzialmente troppo restrittive per un’economia europea già fragile
Non è facile spiegare l’apprezzamento dell’euro registrato negli ultimi mesi nei confronti delle principali altre monete. Rispetto a marzo scorso, l’euro si è rivalutato del 15 per cento con il dollaro, del 13 con lo yen e del 5 con la sterlina inglese. In termini effettivi – ossia rispetto alla media delle altre principali valute – la moneta europea ha raggiunto il livello massimo degli ultimi 25 anni.
Il tasso di cambio, che è il prezzo relativo tra diverse valute, viene determinato sui mercati finanziari in base all’evoluzione di vari fattori, tra cui la bilancia commerciale, i flussi di capitale determinati dai differenziali di rendimento e la crescita delle rispettive economie. Nessuno di questi fattori sembra tuttavia giustificare il recente apprezzamento della moneta europea, soprattutto nei confronti del dollaro. Per quel che riguarda gli squilibri commerciali, le recenti misure restrittive decise dall’Amministrazione americana dovrebbero contribuire a ridurre il passivo americano, da un lato, e l’attivo europeo dall’altro. Ciò dovrebbe ridurre la pressione al rialzo sull’euro, almeno nei confronti del dollaro.
Se si considerano le prospettive di crescita economica, i dati più recenti mostrano una maggior resilienza dell’economia americana, che nei prossimi anni è prevista crescere a un ritmo più sostenuto rispetto a quella europea. Gli investimenti nei settori ad alta tecnologia e i tagli fiscali continuano a sostenere l’attività oltre Atlantico. Ciò è confermato dall’andamento di Wall Street, che beneficia di afflussi di capitale da tutto il mondo.
Nel nostro continente, la crescita è sostenuta in Spagna e il nord Europa e piuttosto flebile i altri paesi, tra cui l’Italia e la Francia, e addirittura negativa in Germania. Ciò non è coerente con un rafforzamento dell’euro. Anche le divergenze monetarie tra i due continenti dovrebbero, almeno in teoria, contribuire ad indebolire l’euro. I tassi d’interesse a breve termine sono infatti stati ridotti molto più rapidamente in Europa, dove si attestano al 2 per cento, rispetto agli Stati Uniti, dove sono ancora al 4. Le condizioni monetarie vengono considerate “ancora restrittive” dalla Riserva federale americana, mentre la Banca centrale europea ritiene di essere oramai uscita dalla fase restrittiva.
Qualcosa evidentemente non quadra nella spiegazione tradizionale dei tassi di cambio. Uno dei problemi potrebbe riguardare proprio il modo in cui vengono paragonate le condizioni monetarie nei due continenti. Se si considera solo il livello dei tassi d’interesse a breve, la politica monetaria americana sembra più restrittiva. Tuttavia, se si estende l’analisi ai tassi d’interesse più a lungo termine e li si confronta con le condizioni di fondo delle rispettive economie, in particolare la crescita e l’inflazione, il risultato appare diverso. Negli Stati Uniti i tassi d’interesse a lungo termine (sui titoli di stato a 10 anni) sono attualmente intorno al 4,1 per cento, a fronte di una crescita tendenziale stimata dal Fmi di circa il 2 per cento e di una inflazione tra il 2,5 e il 3 per cento. In altre parole, i tassi d’interesse sono più bassi dei tassi di crescita nominali dell’economia (ossia la somma della crescita reale e dell’inflazione).
Nell’area dell’euro, al contrario, i tassi d’interesse sono più elevati della crescita nominale. Ad esempio, in Italia la crescita nominale stimata dal Fmi per i prossimi anni è di circa il 2,6-2,8 per cento (2 per cento di inflazione più una crescita intorno allo 0,6-0,8 per cento), mentre il tasso a 10 anni è pari al 3,5 per cento. Lo stesso vale per la Francia. Anche nel caso della Germania il tasso d’interesse, che si aggira intorno al 2,7 per cento, supera il tasso di crescita dell’economia. Forse solo del caso della Spagna e della Grecia la crescita economica è superiore al tasso d’interesse, il che genera condizioni finanziarie favorevoli.
In sintesi, se si estende l’analisi delle condizioni monetarie oltre il breve termine, la politica monetaria europea appare più restrittiva di quella americana. Ciò è coerente con il fatto che la Banca centrale europea sta attualmente sottraendo liquidità dal mercato finanziario, non rinnovando i titoli di stato in scadenza nel suo bilancio, ad un ritmo sempre più intenso, pari a quasi 600 miliardi all’anno contro circa 400 miliardi di un anno fa, mentre la Riserva federale americana ha invece deciso di rallentare, passando da 800 miliardi di dollari a meno di 200. Anche la Banca d’Inghilterra sembra essere indirizzata ad una pausa.
La divergenza delle politiche di gestione del bilancio delle banche centrali – il cosiddetto quantitative tightening – e il diverso impatto sulla liquidità del mercato dell’euro rispetto al dollaro sembra essere una delle cause dell’apprezzamento della moneta europea. Il tasso di cambio non è un obiettivo della politica monetaria, ripetono giustamente i presidenti che si sono succeduti al vertice della Bce. Rappresenta tuttavia un indicatore importante per valutare la stringenza relativa delle politiche monetarie. Un euro che continua a rafforzarsi segnala che le condizioni finanziarie rischiano di essere troppo restrittive in Europa, con effetti potenzialmente deleteri sulla già flebile economia europea.

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