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I Dati

Le revisioni Istat del pil spiegano meglio il puzzle occupati-output

Luciano Capone e Riccardo Trezzi

Le correzioni sui conti 2023-24 alzano la crescita reale all’1 per cento nel 2023 e migliorano i saldi di finanza pubblica. Le revisioni cumulate indicano un ciclo post Covid più forte del percepito

L’Istat ha diffuso le revisioni dei conti nazionali relative al biennio 2023-2024. L’aggiornamento recepisce le informazioni definitive sull’andamento delle imprese e sull’occupazione, successivamente alla stima di marzo. Come spesso accade in questi esercizi, le correzioni hanno riguardato sia il livello del pil, sia gli aggregati di finanza pubblica.

Il dato principale è la revisione al rialzo del pil. A prezzi correnti, il livello del 2023 è stato aumentato di 11,2 miliardi di euro, mentre quello del 2024 di 7,4 miliardi. In termini reali, la crescita del 2023 è stata alzata all’1 per cento (+0,3 punti  percentuali rispetto a marzo), mentre per il 2024 la stima resta a +0,7 per cento. Di conseguenza, anche i conti pubblici mostrano un miglioramento marginale. 

 Il deficit nel 2024 si attesta sempre al 3,4  per cento del pil (ma in miglioramento di 1,6 miliardi di euro), il saldo primario passa allo 0,5 per cento (+0,1 punti), il debito pubblico scende al 134,9 per cento del pil (-0,4 punti) e la pressione fiscale si riduce lievemente al 42,5 per cento  (-0,1 punti). Questi dati rafforzano l’ipotesi, evocata dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, di un deficit che già quest’anno scende sotto il 3 per cento, anticipando di un’anno l’uscita dalla procedura d’infrazione europea. 


Si tratta di numeri che confermano un trend già osservato negli ultimi due anni: le stime preliminari hanno sottostimato il livello di attività economica, con revisioni che si sono sommate nella stessa direzione. Già a inizio 2024 sul Foglio avevamo segnalato che il pil italiano potesse essere più alto di quanto registrato e le correzioni successive lo hanno confermato, accumulando differenze di diversi punti percentuali.


Questi aggiustamenti si inseriscono in un dibattito aperto da tempo, quello sul cosiddetto puzzle “occupati-output”, ovvero lo scollamento tra la crescita del pil e quella dell’occupazione. Dal 2021 a oggi i dati hanno più volte mostrato dinamiche non coerenti con l’esperienza storica, la specializzazione produttiva e la narrativa degli stimoli fiscali: fasi di produttività anomala, seguite da periodi in cui gli occupati aumentavano più del pil. Le revisioni odierne attenuano alcune discrepanze, ma non eliminano il problema poiché il puzzle è articolato in tre fasi. Le rivediamo di seguito.


Prima fase: il boom di produttività. Tra l’inizio del 2021 e la metà del 2022 l’economia italiana ha sperimentato un incremento dell’output ben superiore a quello degli occupati. Facendo 100 entrambi gli indicatori nel 2019, nel 2022 l’occupazione era tornata a 100 dopo la recessione, mentre il pil reale era a 104. Questo divario rappresenta un aumento della produttività difficilmente spiegabile, considerata la struttura del sistema produttivo italiano e la natura degli stimoli fiscali, concentrati soprattutto nei settori a basso valore aggiunto. La letteratura non ha ancora fornito un’interpretazione convincente di questo boom di produttività e rimaniamo quindi nel campo delle ipotesi.


Seconda fase: crescita della produttività negativa. Dalla seconda metà del 2022 la dinamica si è invertita: l’occupazione è cresciuta a ritmi più elevati del pil. Questo aspetto ha ricevuto grande attenzione sui media (e in parte nella letteratura), perché il dato segnalava una produttività in calo continuo. In questo senso, le revisioni dell’Istat hanno alleviato ma solo parzialmente il puzzle: poche settimane fa riducendo le stime sugli occupati  (“L’Italia ha 120mila occupati in meno di quelli che pensava”, Capone e Trezzi, Il Foglio del 5 settembre) e dall’altro i livelli di pil. Ma come detto il puzzle non è scomparso anche dopo le correzioni poiché i tassi di crescita degli occupati sono rimasti più alti di quelli dell’output. Non solo ma resta soprattutto da sottolineare un punto totalmente trascurato nel dibattito: nonostante la dinamica degli ultimi due anni, il livello di produttività odierno è ancora superiore a quello del 2020 (ovvero il livello del pil resta sopra il livello degli occupati), proprio grazie al boom di produttività mai spiegato della prima parte del puzzle.


Terza fase: l’aggiustamento del 2025. Negli ultimi mesi, con la revisione al ribasso del numero degli occupati, il quadro è cambiato ancora. Da un lato, il rallentamento dell’occupazione ha riportato il suo tasso di crescita più in linea con quello del pil, attenuando il disallineamento dei tendenziali. Dall’altro, però, la produttività per addetto è risalita, riattivando il puzzle su un altro piano. In sostanza, un’anomalia è stata ridotta, ma a prezzo di rafforzarne un’altra.

Il puzzle occupati-output è quindi un fenomeno complesso dei dati di contabilità nazionale post-Covid. La prima fase (2021-22) resta inspiegata, la seconda (2022-24) è caratterizzata da occupati in crescita più del pil, fenomeno attenuato ma non risolto dalle revisioni e la terza (2025) ha visto correzioni sugli occupati che hanno cambiato il quadro, senza però eliminare la contraddizione. Insomma, rimaniamo lontani dalla soluzione del puzzle. In questo quadro, l’unica certezza è che il ciclo economico post-Covid è stato sottostimato, sia dagli istituti di statistica sia, di conseguenza, dalla politica economica. Guardando alle prossime settimane, dopo l’upgrading di Fitch, questo è sicuramente un elemento che potrà essere valutato anche dalle altre agenzie di rating e che il mercato sta scontando con la riduzione dello spread.
 

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