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l'intervista
Il vino italiano fa i conti con i dazi di Trump: "Stanno pagando le nostre imprese"
Al contrario di ciò che sosteneva Lollobrigida, a pagare per la politica tariffaria degli Stati Uniti sono le cantine italiane e non i consumatori americani. Parla il presidente di Unione Italiana Vini
Sei mesi fa, quando la tensione commerciale tra Stati Uniti e Unione europea era molto forte e il settore del vino era molto preoccupato, il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida gettava acqua sul fuoco: “Non dobbiamo essere terrorizzati dai dazi – disse il ministro a WineNews – i prodotti premium continueranno a essere acquisiti perché vengono scelti non sulla base del prezzo basso ma del prezzo giusto. Se un prodotto è di qualità sei disposto a pagarlo un po’ di più”. Lo stesso ragionamento Lollobrigida lo ha poi applicato ad altri prodotti come il Parmigiano, definito come un prodotto “anelastico”: “Chi vuole il parmesan lo compra, chi vuole il Parmigiano Reggiano in passato è stato disposto a pagarlo di più”.
Quel tentativo di sminuire l’impatto dei dazi di Donald Trump, come scrivemmo all’epoca, non aveva alcun fondamento economico. Anche perché partiva da un assunto completamente errato: almeno l’80 per cento dell’export di vini italiani non supera i 4,18 euro al litro franco cantina, mentre i vini di lusso rappresentano appena il 2 per cento dei volumi esportati. Insomma, per fare un paragone automobilistico, nell’export di vini italiani ci sono sicuramente le Ferrari e le Maserati ma il grosso è rappresentato dalle Fiat: una fascia di mercato con una domanda molto più elastica.
La tesi di Lollobrigida era che i dazi li avrebbero pagati tutti i consumatori americani, la realtà dimostra l’esatto contrario: li stanno pagando tutti i produttori italiani. Lo rivela un’analisi dell’Osservatorio di Unione Italiana Vini (Uiv), secondo cui dall’introduzione delle nuove tariffe statunitensi, in soli tre mesi, i vini italiani hanno subìto un aggravio di 61 milioni di dollari, pari a circa un terzo dell’import statunitense di vini (appena sopra l’Italia c’è la Francia con 62,5 milioni di dollari).
Ma chi ha pagato questi extracosti? I consumatori americani, come diceva Lollobrigida? I distributori statunitensi, come speravano i produttori italiani? O le imprese italiane, come il settore temeva? La risposta esatta è l’ultima. Nel mese di luglio, secondo l’analisi della Uiv, il vino italiano è arrivato negli Stati Uniti con un prezzo medio ridotto del 13,5 per cento: per poter continuare a stare sugli scaffali a 13-14 dollari al litro, i listini sono scesi dai 6,52 dollari di luglio 2024 a 5,64 dollari un anno dopo. “I dazi li stanno pagando totalmente le nostre imprese sacrificando i margini per poter restare competitivi”, dice al Foglio il presidente di Unione Italiana Vini Lamberto Frescobaldi. Le ragioni sono molteplici. Una è, come spiega Frescobaldi, che “perdere una posizione sul mercato americano è molto pericoloso, perché ricostruirla costerebbe molto”. Così le imprese, almeno per il momento, preferiscono ridurre i margini pur di non perdere volumi o uscire dagli scaffali statunitensi.
Su questo fronte potrebbero esserci delle novità positive dato che, dopo il fallito tentativo di escludere i vini dai dazi al 15 per cento, il negoziato prosegue e sia la Commissione sia il governo italiano puntano a ottenere delle esenzioni per i vini. Ridurre i margini per mantenere le quote di mercato può essere un sacrificio temporaneo qualora la trattativa dovesse andare a buon fine.
Un altro fattore è di tipo strutturale: c’è un eccesso di offerta. “Una volta Italia e Francia erano monopolisti, oggi ci sono tanti concorrenti nel mondo – dice il presidente di Uiv –. Ora c’è la vendemmia, ma in cantina abbiamo ancora scorte importanti del 2024. Così molti produttori hanno dovuto rivedere le loro politiche di prezzo. Questo deve farci riflettere sul futuro: bisogna abbassare le rese, perché avere meno prodotto significa avere più forza commerciale”. Insomma, tra concorrenza globale che si allarga e mercati come quello americano che si chiudono, il rischio è di abbassare strutturalmente la marginalità, con il rischio che nel medio termine si riduca anche la qualità del vino. Uno scenario che è opposto a quello rosè delineato dal ministro Lollobrigida. “Però bisogna dargli atto di una cosa – dice Frescobaldi –, si è molto impegnato per tutto il settore. Bisogna riconoscerglielo”.
In questo contesto difficile, ci sono anche dei segnali positivi, come l’accordo tra Ue e Mercosur. Il governo Meloni era contrario, ma poi si è ricreduto. “Oggi il Mercosur pesa solo lo 0,6 per cento dell’export – dice il presidente di Uiv – ma ha enormi potenzialità: è un mercato grande, con una classe media che cresce e fatto di persone con una comune radice europea e italiana”.