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l'Ue dei tacchini

Quel che deve fare l'Europa è chiaro. Ora bisogna superare lo stallo

Lorenzo Bini Smaghi

La mancata integrazione finanziaria sta svuotando i mercati europei, ostaggio di interessi nazionali miopi. Le aziende migrano verso l'America, i capitali pure. L’unione resta ferma, in attesa di una crisi o di una scossa. L’integrazione è l’unica via d’uscita, ma manca il coraggio politico

L’elenco delle cose che deve fare l’Europa per affrontare le prossime sfide è ormai chiaro. Il problema è come superare lo stallo, che nasce in larga parte dall’incapacità dei paesi membri di rinunciare al loro potere di veto e di accettare di decidere insieme.  


Un vecchio detto inglese – “I tacchini non votano per il Natale” – può aiutare a capire il problema. Tradotto: nessuno è disposto a prendere decisioni che mettono a rischio la propria sopravvivenza. Chi ha un po’ di potere, anche insignificante, se lo tiene stretto non è disposto a cederlo. Questo è il motivo per cui i paesi europei non accettano di decidere in comune, a maggioranza, e vogliono mantenere il diritto di veto. 


Questo principio si applica a tutti i livelli decisionali, soprattutto a quelli più bassi dei funzionari governativi o delle autorità indipendenti dei paesi membri. La conseguenza è che gli accordi di massima presi in Europa, a livello di Consiglio europeo – ossia dei capi di governo – tendono ad arenarsi quando la discussione passa al livello tecnico, dei ministri e funzionari. Lo spirito di sopravvivenza dei tacchini agisce soprattutto nei negoziati tecnici. L’euro, ad esempio, non sarebbe mai nato se la decisione fosse stata lasciata alle banche centrali, ben consapevoli che la moneta unica avrebbe tolto loro gran parte del potere residuale. C’è voluta l’azione di banchieri con una visione del bene comune, come Tommaso Padoa Schioppa, per convincere i vertici politici che quel potere era ormai illusorio e che una moneta unica sarebbe stata nell’interesse di tutti.


Lo stesso vale per la decisione del 2012 di unificare la regolamentazione e la vigilanza bancaria europea, che era stata contrastata per anni dalle autorità nazionali e che solo la crisi del 2011-’12 ha consentito di realizzare. Il problema si ripresenta oggi nei confronti dell’obiettivo di un mercato finanziario europeo pienamente integrato, con una regolamentazione e una vigilanza unica. Si tratta di un obiettivo essenziale, in vista degli enormi investimenti che l’Europa deve fare nei settori della difesa, dell’ambiente, della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale. Investimenti che non possono ricadere solo sulle finanze pubbliche. C’è peraltro una forte interesse degli investitori esteri per strumenti finanziari europei alternativi al dollaro.  Il momento è dunque propizio.


L’obiettivo è stato ribadito più volte dal Consiglio europeo, anche sotto la spinta dei vari rapporti presentati in questi anni e degli appelli, non ultimo quello dalla presidente della Bce Cristine Lagarde (A Kantian shift for the Capital Market Union, 17 novembre 2023). Ciononostante, si avanza a rilento. Anche in questo caso, l’opposizione viene principalmente dalle autorità nazionali. Si basa sulla tesi secondo cui, diversamente dall’unione monetaria, creata dopo le crisi valutarie degli anni Ottanta e Novanta, e dall’unione bancaria, decisa dopo la grande crisi del 2010-12, non c’è attualmente una crisi sul mercato dei capitali


In realtà, la situazione è molto più grave. I mercati finanziari dei paesi europei stanno gradualmente e inesorabilmente scomparendo. Qualcuno più rapidamente dell’altro. Lo confermano le statistiche sul calo delle transazioni e sulla diminuzione delle aziende quotate. Nel giro di qualche anno, rimarranno solo quelle a partecipazione statale. Un numero crescente di imprese prende la direzione del mercato americano, più ampio e più liquido, dove sono meglio valorizzate. I fondi, che ne sono i principali azionisti, incoraggiano questa migrazione.

  
Le norme fiscali che sta approvando l’Amministrazione americana daranno la mazzata finale, creando ulteriori incentivi a spostare le sedi delle imprese europee oltre Atlantico. In parallelo, i flussi di risparmio dei paesi europei vengono sempre di più intermediati da operatori, tipicamente americani, che non sono regolati. Ma che hanno una sempre più grande influenza politica.


In sintesi, l’opposizione al processo di integrazione sta portando alla desertificazione di ciò che rimane dei mercati europei, a favore di Wall Street. Gli ostacoli non nascono, come spesso si sente dire, dall’eccessiva regolamentazione prodotta dalla burocrazia europea, ma piuttosto dalle burocrazie e dalle politiche nazionali, che si aggrappano al potere loro rimasto per contrastare la semplificazione e l’armonizzazione necessarie per creare un mercato unico efficiente.  


La responsabilità per superare lo stallo risiede nei massimi rappresentanti dei governi nazionali, ai quali rispondono le burocrazie nazionali.

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