
cina 1 trump 0
Così Pechino ha ribaltato il tavolo delle trattative con Trump
Sui dazi l’America era partita con la fanfara, ma si è dovuta arrendere. Trump ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco e accettare l’accordo con la Cina. Una sconfitta che nasce dagli errori commessi ai tempi dalla prima presidenza. Lezioni per l’Europa
Dopo poco più di due mesi dal “giorno della liberazione” proclamato dal presidente americano con l’annuncio di dazi nei confronti di tutto il mondo, Trump ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco e accettare l’accordo con la Cina. Che di fatto è una sconfitta. Una sconfitta che nasce dagli errori commessi ai tempi dalla prima presidenza Trump, quando gli Stati Uniti cominciarono a usare strumenti di politica economica – come i dazi e le restrizioni all’export di alcuni prodotti, come i semi conduttori – a fini puramente politici. Con l’obiettivo di contrastare la crescita economica della Cina e cercare di impedirne il sorpasso. Un obiettivo che, seppur condiviso tra le recenti amministrazioni repubblicane e democratiche, e in parte comprensibile per un paese egemone da circa un secolo, è di fatto fallito.
Principalmente per l’assenza di visione strategica, che invece non è mancata dal lato cinese. In effetti, l’atteggiamento protezionistico americano ha rafforzato negli anni la convinzione dei cinesi che gli Stati Uniti volevano a tutti i costi ostacolare le loro aspirazioni legittime di migliorare le loro condizioni di vita. Nell’immaginario collettivo di quel paese, l’America è diventata il nemico numero uno. Ciò ha rappresentato la scusa ideale per impostare una svolta nazionalista e concentrare gli sforzi del paese al fine di raggiungere la cosiddetta autonomia strategica. L’obiettivo principale del presidente cinese è quello di rendere il paese autonomo dagli Stati Uniti. Il modo più efficiente per raggiungere l’obiettivo è quello di rendere gli Stati Uniti dipendenti dalla Cina.
Questa strategia è stata messa in atto attraverso alcune scelte essenziali. La prima ha consistito nel pretendere che le aziende che intendevano vendere i loro prodotti in Cina non solo producessero una parte prevalente nel paese, ma che gli investimenti produttivi fossero accompagnati da trasferimenti di tecnologia a beneficio delle aziende locali. Ciò ha consentito nel tempo alla Cina di dotarsi di una struttura produttiva molto competitiva.
Una seconda scelta strategica è stata quella di incentivare gli studenti cinesi ad andare a studiare nelle migliori università americane ed europee, soprattutto nei settori scientifici, e di farli poi tornare a lavorare negli impianti del loro paese. Al contempo, sono stati fatti enormi investimenti nelle principali università cinesi, che hanno scalato le classifiche mondiali e sfornano oggi la metà dei laureati in Ingegneria del mondo.
La terza scelta è stata quella di accaparrarsi una parte preponderante di terre rare, che sono fondamentali per la fabbricazione di prodotti ad alta tecnologia, come i computer, le turbine o le fusoliere degli aerei. In questo modo la Cina si è messa in condizione di bloccare la produzione americana proprio di quei prodotti che gli Stati Uniti non vogliono esportare in oriente. In sintesi, si è creata una situazione per cui se l’America non vuole vendere i semiconduttori alla Cina, quest’ultima può bloccargli la produzione, non fornendogli le materie prime.
La minaccia di sospendere la vendita di terre rare è stata la pistola che i rappresentanti cinesi hanno posto sul tavolo delle trattative, ancor prima di iniziare a discutere. L’effetto è stato immediato. La Cina ha ottenuto non solo la riduzione dei dazi ma anche la riapertura delle frontiere americane per i loro studenti, che già riempiono le classi delle migliori università americane. E per far capire che fanno sul serio, i cinesi hanno indicato che l’accordo sulle terre rare è comunque temporaneo e andrà rivisto tra sei mesi.
L’interesse cinese non sembra peraltro fermarsi qui. Da un articolo recente sul Financial Times sembra emergere che, in cambio dell’acquisto di terre rare, la Cina abbia chiesto alle aziende europee e americane informazioni riservate, in particolare per quel che riguarda i processi produttivi interni e i dati sui loro clienti. La licenza di importazioni di terre rare viene rilasciata solo in cambio di dati dettagliati riguardanti i sistemi operativi, i dipendenti e in alcuni casi anche le immagini dei prodotti e degli impianti. La Cina ha capito che le banche dati sono ancor più importanti della tecnologia e delle terre rare.
L’Europa, che si appresta a negoziare con Trump, può trarre almeno due insegnamenti. Il primo è che non si deve sedere al tavolo se non anch’essa con qualche arma per trattare alla pari. Il secondo è che è una mera illusione pensare che, in caso di mala parata con gli americani, potrebbe sempre ripiegare su un accordo con la Cina. Rischierebbe di cadere dalla padella alla brace.