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Questione salariale: le proposte sbagliate e le riforme possibili
Oggi il governo discuterà con i sindacati di sicurezza sul lavoro, ma il vero nodo sarà quello salariale, dopo anni di stagnazione e perdita di potere d’acquisto
Oggi il governo incontrerà i sindacati per discutere – ufficialmente – di sicurezza sul lavoro, tema doveroso e urgente. E’ positivo che una parte del “tesoretto” dell’Inail venga destinata a prevenzione e tutele per i lavoratori. Ma accanto alla sicurezza c’è un convitato di pietra che nessuno può ignorare: i salari. Dopo anni di stagnazione, perdita di potere d’acquisto e aumenti troppo modesti, il tema salariale irromperà comunque sul tavolo. E il rischio è che le proposte oggi in campo peggiorino la situazione invece di migliorarla. La prima, targata Lega, rischia di essere un ritorno mascherato alla scala mobile: adeguamento automatico dei salari all’inflazione, senza negoziazione né legame con la produttività. Una misura che l’Italia ha già conosciuto e fortunatamente superato, perché alimentava la spirale prezzi-salari e irrigidiva il mercato del lavoro.
La seconda proposta, avanzata da Forza Italia, appare più moderna ma ha effetti altrettanto distorsivi. Prevede l’esenzione fiscale e contributiva per gli aumenti contrattuali dei rinnovi nazionali, per tre anni. A prima vista sembra un premio alla contrattazione. In realtà è un passo verso una sorta di flat tax incrementale sul lavoro dipendente, che introduce surrettiziamente una logica regressiva nel sistema fiscale. Il meccanismo crea disuguaglianze: a parità di reddito, due lavoratori potrebbero pagare imposte molto diverse solo per il momento in cui ricevono l’aumento. E dopo tre anni, il beneficio fiscale scompare? Semplicemente non può funzionare. Si genererebbe un sistema opaco, instabile e potenzialmente incostituzionale: l’articolo 53 della Costituzione impone la progressività dell’imposizione, non il suo smantellamento pezzo dopo pezzo.
Purtroppo non è una proposta nuova. E’ già circolata molto spesso tra sindacati, imprese e governi, dal governo Conte II al governo Draghi. Sempre giustamente rifiutata, speriamo non venga riesumata oggi solo per mancanza di idee migliori. Per affrontare seriamente il nodo salariale servono riforme vere della contrattazione, non travestimenti della flat tax, peraltro distorsivi. La priorità è una legge sulla rappresentanza sindacale e datoriale, che stabilisca chi può contrattare ed entro quali perimetri. Oggi la contrattazione è frammentata, soprattutto nei servizi, e non mantiene il potere d’acquisto in linea con l’inflazione. Ma ogni governo ha evitato di intervenire per non toccare l’autonomia autoreferenziale delle parti sociali. Poi ognuno ha i suoi sindacati “amici” e i relativi veti incrociati, ma la legge serve: bisogna prendere atto che i patti volontari tra le parti non hanno funzionato. Serve poi un salario minimo legale per chi non è effettivamente coperto dai contratti collettivi. E’ tempo di smettere di dire che i contratti nazionali coprono tutti: li coprono male, e solo formalmente. Nei settori a bassa sindacalizzazione e tra i lavoratori esternalizzati, circa il 6 per cento del totale, le tutele salariali sono deboli o assenti. Oggi rischiamo perfino che i giudici si sostituiscano ai contratti nella determinazione dei minimi.
Altro nodo, il fiscal drag. L’inflazione ha eroso i salari reali anche perché gli scaglioni Irpef non sono stati aggiornati. Serve un’indicizzazione automatica (in questo caso sì), altrimenti gli aumenti nominali si trasformano in un aggravio fiscale che li azzera. Infine, c’è una realtà nota ma ignorata: nelle piccole imprese le retribuzioni reali divergono da quelle contrattuali. Si lavora più di quanto dichiarato, si prendono compensi superiori ai minimi, ma spesso non tracciati. Gli strumenti per contrastare contratti part time fittizi e pagamenti irregolari esistono: bisogna usarli. Per riportare queste somme dentro la contrattazione legittima, si potrebbe estendere la soglia della detassazione dei premi di risultato per le piccole imprese sotto i dieci dipendenti, svincolandola da criteri troppo formali. E per le grandi imprese servirebbe abbassare le soglie per costituire le rappresentanze sindacali unitarie, così da facilitare la contrattazione di secondo livello. L’aiuto fiscale va usato con razionalità, non deve in nessun modo sostituire strutturalmente i salari con il denaro pubblico. Finché si continuerà a pensare che si possano alzare le retribuzioni con i soldi dello stato, eludendo i nodi della contrattazione, della rappresentanza e della progressività, non si andrà da nessuna parte.