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Il referendum sul Jobs act è in controtempo. Pensare a un'agenda che vada oltre il codice del lavoro
Competenze, relazioni industriali, riordino del sistema fiscale e di welfare: se il lavoro non è più il terreno delle grandi riforme, questo non significa che non servano riforme. Un'agenda
Fino a qualche anno fa, non ci si poteva definire riformista – né a destra né a sinistra – se non si proponeva una riforma del mercato del lavoro. Era quasi un passaggio obbligato: semplificare, liberalizzare, rendere più “moderno” il rapporto tra imprese e lavoratori. La stagione dei grandi interventi – dal pacchetto Treu alla legge Biagi, fino al Jobs Act – ha occupato il centro della scena politica per oltre vent’anni. Oggi, invece, il mercato del lavoro, in apparenza, è uscito dal radar delle urgenze. Un po’ perché è sempre meno il centro del conflitto ideologico (sebbene il prossimo referendum sul Jobs Act provi a riaprire la partita), un po’ perché i dati recenti sembrano raccontare una realtà in forte miglioramento. Sono oltre 24 milioni gli occupati, quasi 800 mila i nuovi posti solo nell’ultimo anno, mai così tanti i contratti a tempo indeterminato. Numeri da festeggiare, certo, ma senza dimenticare che il tasso di occupazione è il più basso dell’Unione europea (ormai inferiore anche a quello della Grecia) e più di un giovane su quattro tra i 15 e 34 anni è un Neet, cioè non studia, non lavora né fa formazione. Inoltre i salari reali restavano ancora inferiori del 7 per cento rispetto al 2021, prima della fiammata inflazionistica. E la produttività resta al palo.
Se il lavoro non è più il terreno delle grandi riforme (e forse va bene così), questo non significa che non servano riforme. Nel libro La questione salariale (Egea, 2025), scritto con Roberto Mania, abbiamo provato a riprendere il filo della matassa e la nostra conclusione è che più che di nuove regole (le abbiamo cambiate in media ogni due anni negli scorsi tre decenni!), il lavoro italiano ha oggi bisogno di una nuova agenda, oltre le norme del codice del lavoro. Una strategia che unisca imprese, lavoratori e istituzioni attorno a un progetto condiviso. Nel libro indichiamo cinque direttrici, specifiche ai salari ma altre potrebbero e dovrebbero aggiungersi, a partire dalle politiche attive che ancora latitano in ampie zone del paese. Il primo grande tema è quello della specializzazione produttiva e della dimensione delle nostre imprese. Ne ha scritto sul Foglio Fabiano Schivardi il 24 aprile scorso. Piccolo non è bello perché penalizza l’innovazione, la formazione e la possibilità stessa di riconoscere salari più alti. Infatti, il gap di produttività italiano non è generalizzato – le imprese medie e grandi hanno livelli di produttività comparabili a quelle tedesche e francese – ma concentrato nelle micro imprese (che sono anche più numerose che in Francia e Germania). Per superare questo limite strutturale, serve una revisione organica delle norme che continuano a disincentivare la crescita dimensionale, a partire da soglie fiscali, burocratiche e contrattuali che rendono sconveniente il passaggio da piccola a media impresa. Significa riprendere in mano anche tutte quelle norme e (dis)incentivi nati con la buona intenzione di aiutare i piccoli, ma che finiscono per diventare una gabbia dorata per chi ne beneficia. Rispetto alla specializzazione produttiva, non creeremo una Silicon Valley per decreto. Ma aiuterebbe cominciare a cambiare la narrativa. Se continuiamo a raccontarci che “il turismo è il petrolio dell’Italia” o che “l’edilizia è il motore della crescita” difficilmente riusciremo a far ripartire produttività e salari. Questo non significa che si debba ignorare questi settori, anzi, guadagni di produttività sono possibili anche lì e l’edilizia sarà la chiave in particolare per affrontare la transizione energetica, ma non possono essere i pilastri su cui fondare la prosperità del paese.
Il secondo tema è quello di un riordino complessivo del sistema fiscale e di welfare in grado di ridurre le disuguaglianze e sostenere la crescita. Normalmente nel dibattito si insiste sul livello del cuneo fiscale e la necessità di abbassarlo. Ma paesi come Belgio, Francia o Germania hanno un cuneo fiscale superiore al nostro. Inoltre, dal 2006, anno in cui il secondo governo Prodi definì i primi tagli, al 2023 il cuneo fiscale è sceso di appena un punto, dal 46,1 per cento nel 2006 al 45,1 per cento nel 2023. Meglio di niente, ma non granché rispetto alle energie investite. Il problema del fisco, ancora prima del livello di tassazione è su chi incombe questa tassazione e come ne sono usati i proventi. A oggi, il carico fiscale e contributivo grava in misura sproporzionata su appena un quarto dei contribuenti, essenzialmente lavoratori dipendenti, mentre autonomi e rendite beneficiano di regimi più leggeri. Queste distorsioni si fanno sentire nei redditi da lavoro e nel caso dei lavoratori autonomi si faranno sentire in maniera ancora più acuta quando sarà l’ora di andare a riscuotere la pensione. Ecco, allora, che ha ancora senso la proposta di riordino complessivo del sistema fiscale che Mario Draghi fece nel suo discorso di fiducia del 2021, richiamando il lavoro della commissione in cui sedevano Bruno Visentini e Cesare Cosciani negli anni Settanta o la Danimarca più recentemente. Lo stesso andrebbe fatto sul lato delle spese per il welfare. Sono numerosi gli strumenti e le prestazioni che lo stato eroga ma che non necessariamente sono coerenti tra di loro. Per esempio, l’Assegno di Inclusione (ciò che ha sostituito il reddito di cittadinanza), la disoccupazione parziale e gli ex 80/100 euro costituirebbero già le basi di un in-work benefit, cioè un sostegno monetario a chi, pur lavorando, è povero. Ma sono tre strumenti che non si parlano tra loro e che, di conseguenza, non raggiungono adeguatamente questo obiettivo.
Il terzo punto è quello delle competenze. Anche l’ultima indagine Ocse ha confermato il ritardo italiano con un adulto su dieci che ha un livello di alfabetizzazione limitato. Suona ormai retorico dire che serve un salto di qualità nell’apprendimento continuo, nell’orientamento scolastico e nella connessione tra istruzione e sistema produttivo, però non è meno vero. Le imprese lamentano la difficoltà a trovare profili qualificati, ma, nella maggioranza dei casi, spesso a causa del loro nanismo, non investono abbastanza nella formazione dei propri dipendenti – e dei propri manager! Infatti, dobbiamo aumentare anche le competenze e il grado di managerializzazione delle imprese italiane. Il rapporto Colao redatto durante il Covid aveva delle proposte di sensibilizzazione, di collaborazione tra enti formativi e associazioni di categoria, di mobilitazione dei fondi interprofessionali che andrebbero riprese. Quarto punto, le relazioni industriali. La contrattazione nazionale nonostante uno scatto di orgoglio a inizio 2024 con il rinnovo di importanti contratti continua a mostrare il passo. Come certificato anche nell’ultimo bollettino di Banca d’Italia, non c’è un solo contratto collettivo nazionale che abbia recuperato i livelli pre inflazione. E questo recupero non è in vista neanche nel futuro prossimo. Non sembra un tema che scaldi più di tanto le confederazioni sindacali (si veda il limitato supporto che i metalmeccanici stanno ricevendo, almeno pubblicamente, nelle trattative per il delicato rinnovo del proprio contratto). Nel frattempo la frammentazione degli attori continua. La mancanza di regole chiare sulla rappresentanza delle parti sociali, in particolare dal lato datoriale, infatti, ha portato alla proliferazione dei contratti collettivi. Non tutti i nuovi contratti sono “pirata”. Ma è indubbio che siano spuntati diversi contratti con l’obiettivo esplicito di fissare condizioni al ribasso (si può arrivare a diverse migliaia di euro all’anno di differenza).
In termini di lavoratori coperti, l’incidenza dei contratti pirata resta minima ma la mera possibilità di firmarne uno ha un effetto “spada di Damocle” sulla contrattazione “buona”. Inoltre, ritardi pluriennali nel rinnovo dei contratti collettivi sono la norma, non un’eccezione. Eppure, nonostante il quadro sia chiaro, non si trova una quadra per contrastare la deriva. L’autonomia delle parti sociali, principio sacrosanto, sembra diventare la scusa per non toccare nulla, nella paura che venga giù tutto il castello di carte. Dal canto suo, la contrattazione di secondo livello – aziendale o territoriale – resta poco diffusa, di nuovo perché la taglia delle imprese ne limita molto la portata e perché la contrattazione territoriale non è mai decollata (per questo citofonare alle parti datoriali). Eppure, sarebbe uno strumento cruciale per legare salari e produttività, per adattare le condizioni di lavoro alle specificità locali, per dare voce ai lavoratori nelle scelte aziendali.
La Direttiva europea sul salario minimo, seppur appesa a un filo in attesa di una decisione della Corte di Giustizia europea che potrebbe annullarla dopo il ricorso di Danimarca e Svezia, suggerirebbe una riflessione al riguardo. L’Italia è in linea con la lettera della Direttiva, ma mi pare difficile sostenere che ne sia in linea con lo spirito. Uno scatto da parte delle parti sociali sarebbe auspicabile perché i vuoti sono destinati a essere comunque riempiti. I tribunali stanno già intervenendo, ma non si può lasciare perdurare la supplenza della magistratura perché in quel caso il minimo salariale diventerebbe un obiettivo mobile, da adattare caso per caso, togliendo ogni certezza alle imprese. In parallelo, poi si muovono anche gli enti locali, introducendo minimi salariali nelle norme sugli appalti (tuttavia non è chiaro se dal punto di vista costituzionale questa sia una materia su cui si possono esprimere Comuni e Regioni o se sia esclusiva nazionale). Per continuare a restare rilevante, alla contrattazione servono criteri chiari di rappresentatività, strumenti di mediazione per contrastare i ritardi nei rinnovi e, nei settori dove l’urgenza sembra più forte, il coraggio di sperimentare forme di salario minimo legale per colmare i vuoti contrattuali (così procedendo con la cautela necessaria rispetto a uno strumento che può facilmente diventare una clave politica e finire per danneggiare chi dovrebbe beneficiarne).
Infine, un fronte spesso sottovalutato: aumentare il rispetto delle norme già in vigore. Non servono altre norme in un paese che non rispetta quelle esistenti. Come ci ricordava Edoardo Di Porto nel numero di gennaio di Eco, la rivista diretta da Tito Boeri, in Italia più di un individuo su dieci lavora senza che il datore di lavoro versi completamente i contributi sociali. Come arma di deterrenza principale usiamo la vigilanza ispettiva. Ma in un paese composto soprattutto da micro e piccole imprese, è una sfida di Sisifo. Sempre Di Porto ci ricorda che in Italia vi sono più di 4 milioni di imprese sotto la sorveglianza dell’Ispettorato nazionale del lavoro – con circa 17 milioni di addetti – il 90 per cento delle quali sotto 10 addetti. E gli ispettori coordinati dall’Ispettorato del lavoro sono appena 3.848. Mi pare ovvio che la minaccia non sia credibile. E poi, come per le multe, anche quando arriva un’ispezione e certifica una mancanza, lo Stato non riesce a esigere le somme: secondo la Corte dei conti tra il 2000 e 2022 l’indice di riscossione è stato del 13,5 per cento. Servono più ispettori sicuramente, assunzioni sono in corso, così come un miglior coordinamento tra le autorità preposte alla vigilanza. Ma serve anche fare un maggiore e migliore uso della mole di dati che sono già in possesso delle amministrazioni.
Speriamo funzionino i nuovi indicatori di affidabilità contributiva (Isac) che permettono di incrociare dati di fonte Inps e Agenzia delle Entrate per far emergere incoerenze e situazioni sospette. Sul fronte strettamente salariale, un’efficace vigilanza documentale, cioè l’analisi dei documenti e dei dati a disposizione, al momento è limitata anche dalla scarsa leggibilità del sistema che abbiamo già menzionato. Perfino per l’ispettore che arriva in azienda o l’analista dei dati in sede centrale può non essere ovvio definire il minimo di riferimento e i componenti della retribuzione (Tfr, trattenuta per fondo pensione, contributi per la bilateralità, tredicesima o quattordicesima) da considerare per la verifica di un livello retributivo. Inoltre, nei dati Inps non è incluso il livello di inquadramento del lavoratore e si potrebbe verificare solo la conformità con il livello minimo. Infine, serve più trasparenza: buste paga chiare e non congelate agli anni Settanta con voci esotiche come la contingenza, contratti collettivi più leggibili, strumenti digitali per verificare in tempo reale la propria posizione lavorativa.
In conclusione, anche se il lavoro non è più il terreno delle grandi riforme di bandiera, questo non significa che non servano riforme. E’ difficile che questo Primo Maggio sia il momento più propizio per parlarne. Lo spazio dedicato ai temi del lavoro nelle prossime settimane sarà assorbito dal referendum che, però, rispetto ai temi di attualità oggi, appare quanto meno in controtempo. Attacca la precarietà mentre il numero di contratti a tempo indeterminato continua a salire e non parla di salari. Propone di abolire pezzi di una riforma che è già stata ampiamente rimaneggiata negli anni scorsi (per altro finendo per tornare a un regime che prevede un massimale di risarcimento inferiore) invece di chiedere il completamento di quelle parti del disegno iniziale del Jobs Act (politiche attive, ispettorato del lavoro o salario minimo) che sono rimaste incomplete o lettera morta e che invece servirebbero per lottare contro la “precarietà” nel senso lato del termine. Tuttavia, una volta calata la polvere dopo la consultazione popolare, sarebbe auspicabile che qualcuno provi a riprendere i fili del dibattito e riproporre un’agenda che vada oltre il codice del lavoro. Meno mediatica probabilmente, ma ugualmente, anzi, forse più necessaria.
