Uno stabilimento di Prysmian Group, che ha sede a Milano ed è leader mondiale nella produzione di cavi (foto Ansa) 

Multinazionali in crescita

Il capitalismo italiano ha un nuovo orizzonte: il vasto mondo

Il quarto capitalismo poggiava su due gambe: multinazionali tascabili e nicchie d'eccellenza. Il quinto consiste nel cammino fuori dalle nicchie e dalle tasche

Stefano Cingolani

L’espansione globale non è in contraddizione con le radici. Ed esportare non è più sufficiente. Le aziende che hanno superato i confini nazionali sono 175 e producono un fatturato di 500 miliardi

El Inglés, biondo, con gli occhi azzurri, un coraggio da vendere e una mente sottile come una lama. Lo chiamavano così i combattenti repubblicani durante la Guerra civile spagnola. E potrebbe davvero essere un personaggio di Ernest Hemingway, il giovane Algernon Charles Holland, spedito ad aiutare gli anti franchisti in quella sorta di prova generale del conflitto mondiale che Adolf Hitler con al seguito Benito Mussolini avrebbe scatenato di lì a poco. Algernon, che tutti chiameranno Charles, era venuto al mondo il 10 febbraio 1919 nel Sussex e non aveva mai conosciuto il padre, aviatore della Raf morto nel settembre dell’anno precedente. Rimasta sola con il figlioletto, la madre di origine scozzese aveva deciso di tornare nella natia Buenos Aires.

 

Algernon Charles Holland, fondatore di Amplifon, fece la Resistenza in Italia: lo angosciava chi aveva perso l’udito per le esplosioni

 

Dopo il diploma al liceo inglese, Charlie entra nelle forze speciali di Sua maestà britannica e, vista la maestria nella lingua iberica, il primo incarico tra la fine del 1938 e l’inizio del ’39 è in Spagna. Conoscerà poi la guerra partigiana in Grecia e in Italia: viene paracadutato nel ’44 sulle colline parmensi con il compito di tenere i contatti con la resistenza per conto della cosiddetta Brigata del diavolo, composta soprattutto da americani. Un anno di combattimenti feroci contro nazisti e repubblichini, è l’autunno più duro, quando Winston Churchill riduce al minimo il sostegno ai partigiani ridotti al lumicino e ritenuti ininfluenti. La mattina del 26 aprile 1945 Charles entra in Parma liberata, schivando le pallottole degli ultimi irriducibili cecchini. Per un anno diventa responsabile delle telecomunicazioni nell’esercito alleato, poi viene congedato e rientra a Londra. Tra tutte le atrocità alle quali ha assistito gli resta impressa l’angoscia di chi non può più sentire e ce ne sono davvero molti il cui udito è stato lacerato dalle esplosioni. Nel 1948 ha nostalgia del sud, dell’Italia in particolare, torna a Milano che non lascia più fino al 14 marzo 2001 quando si spegne dopo aver costruito un piccolo gioiello dell’industria medica che chiama Amplifon, oggi leader mondiale degli apparecchi acustici. La moglie Anna Maria, sposata nel ’50, ricordava Charles “bello come lo sono gli anglosassoni quando sono belli”, facendo eco a quel che scrisse Manzoni sul cielo di Lombardia. Della figlia Susan Carol, diventata presidente dell’azienda, si diceva che al liceo Berchet aveva fatto strage di cuori adolescenziali. Con un patrimonio di oltre tre miliardi di dollari la rivista Forbes la colloca tra i primi ricchi al mondo. 

 

Dal quarto al quinto capitalismo

Holland e Amplifon, una vicenda certo singolare, ma rispecchia quel modello italiano che ha conquistato anche un inglese eroe di guerra. Chi vuol capire l’industria manifatturiera non può non partire da aziende come queste che hanno prodotto un vero e proprio sistema chiamato quarto capitalismo e già stanno andando oltre, verso un nuovo paradigma descritto da molti come un quinto capitalismo. Il passaggio avviene in primo luogo grazie alla globalizzazione, alla faccia di chi a destra come a sinistra l’ha demonizzata. Amplifon nasce con la passione di Charles Holland e un’innovazione che si diffonde rapidamente dopo il 1947: il transistor. Idee, sentimenti, ambizioni e tecnologie sono sempre il brodo di coltura di ogni impresa capace di restare nel tempo. La piccola azienda di apparecchi acustici cresce prima in Italia e poi, a partire dagli anni 90, nel mondo, diventando nel tempo leader nel proprio settore con una quota del 13 per cento sul mercato globale. Oggi è presente in 26 paesi di 5 continenti con quasi 10.000 punti vendita e oltre 20.000 addetti. La società ha ricavi annui per circa 2,3 miliardi di euro e una capitalizzazione di mercato superiore ai sette miliardi di euro. Il quartier generale resta a Milano con un’organizzazione articolata in tre aree: Europa e Mediterraneo, Americhe, Asia e Pacifico, anche se la maggior parte del fatturato, circa un miliardo e mezzo di euro, proviene dalla regione euro-mediterranea. Le Americhe hanno superato per la prima volta i 400 milioni di euro di ricavi nel 2023, mentre l’Asia-Pacifico si avvicina ai 350 milioni di euro annui. Per vendere al dettaglio sono stati adottati diversi marchi: negli Stati Uniti Miracle-Ear, ma con Amplifon nelle assicurazioni, mentre in Spagna e in America Latina è Gaes e così via in diversi paesi. L’elenco è lungo e sarebbe noioso, ma serve a spiegare in che modo è avvenuta l’internazionalizzazione, un sentiero simile a quello seguito da altre imprese nei settori più diversi.Lontana da Amplifon eppure così simile è la storia della Sol.

   

Chi vuol capire l’industria manifatturiera deve partire da aziende come Amplifon, che stanno andando verso un nuovo paradigma

  

Fondata nel 1927 dalle due famiglie monzesi Annoni e Fumagalli, produceva ossigeno e acetilene per la saldatura che vendeva ai cantieri navali di Livorno e Ancona. Dopo la Seconda guerra mondiale prende le redini la nuova generazione, ma le famiglie continueranno a guidare insieme l’azienda con impianti vicini alle acciaierie e alle vetrerie che fioriscono durante la ricostruzione. La crisi del polo siderurgico di Piombino è un colpo durissimo, allora gli Annoni e i Fumagalli si lanciano nell’ossigeno per uso medicale fondando la Vivisol. Nel 1998 salgono in plancia di comando Marco Annoni e Aldo Fumagalli Romario. La Sol viene quotata in borsa ed espande il suo raggio d’azione nelle energie rinnovabili, nelle biotecnologie e nei biofarmaci, pur senza abbandonare il gas. Il suo fatturato supera così il miliardo di euro con 49 società in 23 paesi europei oltre a Turchia, Marocco, India e Brasile. E’ proprio Fumagalli a parlare senza mezzi termini di “quinto capitalismo”, arrivando anche a tracciare le fattezze del nuovo modello. Il quarto capitalismo poggiava su due gambe: le nicchie d’eccellenza e le multinazionali tascabili; il quinto è il cammino fuori dalle nicchie e dalle tasche. 

 

Un decennio d’oro

Lo storico Franco Amatori dell’Università Bocconi e l’economista Ilaria Sangalli di Banca Intesa Sanpaolo in un saggio recente propongono un’ipotesi di ricerca sui cambiamenti avvenuti soprattutto nell’ultimo decennio. L’Italia ha fatto i conti con le proprie debolezze economiche e industriali negli anni 90. Ma dopo la doppia recessione 2008-2013, quando il paese stava per fallire sulle orme della Grecia, i progressi sono stati considerevoli. La quota di produzione industriale esportata è passata dal 36 al 48,4 per cento, diventando il motore che ha consentito all’Italia di navigare in mezzo alle tempeste. L’export rimane ancora un punto di forza come ha scritto Andrea Colli, professore alla Bocconi e allievo di Amatori, che già vent’anni fa pubblicava un libro sul modello italiano (“Il quarto capitalismo. Un profilo italiano”, Marsilio, 2002). Ma vendere all’estero non è più sufficiente, bisogna creare aziende davvero mondiali. Oggi ci sono multinazionali italiane in 175 paesi con 24 milioni di controllate, un milione e 700 mila addetti, 500 miliardi di fatturato. Ferrero e Campari, due brand importanti dotati di un notevole status e di un grande appeal fuori dai confini, con prodotti di punta come la Nutella o l’aperitivo rosso rubino, hanno compiuto un vero balzo di qualità, di taglia, di dimensione imprenditoriale, lasciando un maggiore spazio ai manager. Hanno acquisito aziende e marchi di rilievo assoluto, sfidando l’una i colossi dei dolci come l’americana Mars e l’altra i giganti delle bevande alcoliche da Pernod a Diageo. Una trasformazione avvenuta dopo un passaggio generazionale (drammatico nel caso della famiglia Ferrero, per la morte nel 2001 del primogenito Pietro) che ha portato al vertice figure come Giovanni Ferrero e Luca Garavoglia con una cultura aperta al mondo, non chiusa nel tradizionale orticello per quanto di successo. 

   

Dopo il 2008-2013, i progressi sono stati considerevoli in Italia. La quota di produzione industriale esportata è passata dal 36 al 48,4 per cento

  
Il punto di partenza, dunque, è l’internazionalizzazione. Seguiamo la traccia di Fumagalli per capire come si articola il nuovo modello. Le imprese hanno sedi e stabilimenti in tanti paesi per produrre e lavorare in prossimità dei mercati, è qualcosa di molto diverso dalla vecchia delocalizzazione per abbassare il costo del lavoro o dei trasporti. Le dimensioni crescono anche se, secondo la classifica di Mediobanca, sono tuttora pochi i campioni privati che superano un fatturato di dieci miliardi di euro (Ferrero, Prysmian, Telecom, Selex). Seguono i medio grandi, oltre i cinque miliardi (Ip, Marcegaglia, Esselunga, Duferco, Edizione, Eurospin, Arvedi, Salini, Pirelli, Sorgenia, Riva), poi una cinquantina di imprese con un giro d’affari superiore ai due miliardi, sono nomi altisonanti in tutti i settori, eccone alcuni: moda da Prada ad Armani, alimentare da Barilla a Lavazza, trasporti da Grimaldi a Piaggio, macchine da Ima a Interpump, elettrodomestici, da De’Longhi a Candy, acciaio (Feralpi, Danieli), auto (Brembo), farmaceutica (Chiesi, Recordati). Dunque il cammino è lungo perché oggi la taglia conta persino più di prima, per far fronte alle nuove condizioni della competizione globale. “Piccolo è bello” ha fatto il suo tempo. Le imprese seguono i loro clienti, il vecchio distretto si trasforma in filiera che si sposta sui mercati cercando quelli dove si cresce di più. Gli esempi maggiori sono nell’automobile, nella chimica, nei metalli. “Anche nel nostro caso – racconta Fumagalli – molti clienti esteri erano già clienti in Italia. Le reti di relazioni tendono ad ampliarsi e ad articolarsi a livello globale”. Le imprese del quinto capitalismo sono anch’esse per la maggior parte famigliari, ma la differenza con il passato è che i manager hanno un ruolo determinante nella gestione. Inoltre i proprietari sono costretti ad affrontare per tempo il più spinoso dei problemi interni: la successione. Del precedente modello hanno mantenuto la flessibilità, la struttura agile e una vera e propria ossessione per la crescita. L’espansione globale non è in contraddizione con le radici italiane: il cervello resta in patria, molto spesso anche quando vengono le aziende vengono vendute. Ciò vale per la moda e per l’alimentare, ma anche per altri comparti, soprattutto quelli in cui è essenziale la qualità del mestiere e la perizia dell’esperto, due caratteristiche che, se estirpate, fanno perdere valore alle imprese. Tutte hanno ampliato e rafforzato il capitale e hanno utilizzato sia la borsa sia i fondi di private equity, una delle principali novità sul piano finanziario.

 
Oltre i distretti

“Sono stati un modello vincente e continuano a dare un contributo determinante alla crescita: i distretti hanno saputo trasformarsi per cogliere le sfide della competizione globale. Ma non va sottovalutato nemmeno il rafforzamento dell’intero tessuto produttivo sempre più orientato verso la medio-alta tecnologia”, commenta Ilaria Sangalli. Anche l’idea diffusa che la manifattura italiana sia troppo dipendente dai settori tradizionali è vera solo in parte. Sul digitale non è messa male guardando ai dati europei. Un contributo importante è arrivato dai sostegni pubblici agli investimenti con leggi come Industria 4.0; adesso Industria 5.0 fa ben sperare soprattutto per la transizione energetica. Un punto debole riguarda il capitale umano. Qui l’Italia è ancora indietro, non solo per la mancanza di forza lavoro, ma per il ritardo nella formazione. Resta gracile, inoltre, il mercato interno che rappresenta comunque una piattaforma dalla quale fare il balzo verso il mercato mondiale. Ma il modello italiano regge e il quinto capitalismo appare come frutto di un’evoluzione più che di una rivoluzione. Le filiere locali hanno garantito l’approvvigionamento e si dimostrano un valido sostegno in situazioni critiche. Lo hanno dimostrato durante la pandemia, quando le reti di fornitura, pur in difficoltà, non si sono interrotte. E lo dimostrano adesso che, sotto la pressione del nuovo “disordine geopolitico”, emerge l’esigenza di garantire la sicurezza economica insieme a quella politica. Si parla molto di riportare le produzioni in patria: in realtà, grazie al suo modello produttivo, l’Italia lo vive come un problema meno urgente e più risolvibile che non la Germania, dove un colosso come Siemens non è in grado di disincagliarsi dal groviglio cinese e non lo sarà per il prossimo decennio, ammette il suo amministratore delegato Roland Busch. Attenti insomma a non sottovalutare la forza intrinseca di un sistema al di là delle sue debolezze. 

  

Sul capitale umano l’Italia è ancora indietro, per mancanza di forza lavoro e ritardo nella formazione. Resta gracile anche il mercato interno

  
La società di consulenza Equita ha seguito dal 2018 a oggi dieci “campioni italiani” con una capitalizzazione superiore ai dieci miliardi di euro: De’Longhi, Reply (consulenza new media), Brembo, Amplifon, Recordati, Ima (packaging-Vacchi), Diasorin, Marr (ristorazione), Banca Generali e Campari. In media sono altamente esposti alle esportazioni (oltre il 50 per cento del fatturato), hanno una forte propensione ad acquisire altre aziende, a stabilire accordi, a fusioni, inoltre tutte avevano sostanzialmente raddoppiato il loro giro d’affari e quadruplicato i profitti dal 2007 al 2017. Ciò conferma il dinamismo che ha fatto seguito alla crisi finanziaria e al salvataggio del paese avviato dalla stretta di Mario Monti in Italia e dalla svolta di Mario Draghi alla Bce. Dal 2018 in poi sono in scena le energie rinnovabili che hanno visto una vera e propria fioritura, mentre si sono rafforzate le aziende legate all’espansione delle nuove tecnologie per le imprese, come la Sesa di Empoli (tecnologia dell’informazione, che fattura circa due miliardi e mezzo), oppure i player delle cure mediche come appunto Amplifon o Recordati; si sono affermati nuovi protagonisti nella finanza (Mol, mutui online, o Tip, Tamburi investment partners), è entrata tra i campioni la Interpump (pompe ad alta pressione) che ha superato i due miliardi di fatturato e ha appena acquistato la britannica Alltube. Non sono i soliti nomi del cibo, del vino, della moda, il made in Italy è ben altro rispetto a quello di cui si parla, così come l’eccellenza italiana non sta tanto nel sovranismo del grana padano quanto nell’internazionalismo della meccanica che compete testa a testa con quella tedesca e in parecchi casi la supera.

 

Le rose da cogliere

“Le forze e le debolezze che emergono dalla nostra analisi  – scrive Equita – confermano che le imprese e il mercato hanno compiuto progressi negli anni recenti: l’aumento della capitalizzazione media delle imprese di eccellenza; il sostegno per fusioni e acquisizioni; l’espansione del capitale sul mercato al di là degli azionisti di controllo che hanno consentito l’adozione di meccanismi di voto multipli; lo sviluppo di canali di finanziamento alternativi alle banche”. Resta il nanismo: nel 2018 il valore della borsa di Milano era pari al 60 per cento della capitalizzazione della sola Apple, oggi è sceso al 26 per cento. Se guardiamo all’Eurolandia la distanza con la borsa di Parigi non si è ridotta, però Milano non è molto lontana da Francoforte. Quello italiano, dunque, non è più un capitalismo senza capitali, costretto a dipendere dal ruolo centrale delle banche? Pietro Modiano, che è stato a lungo ai vertici del sistema bancario (Credito Italiano, Sanpaolo, Intesa), è meno ottimista. Non nega i cambiamenti né la vitalità delle imprese, tuttavia “il salto di qualità verso un capitalismo più aperto al mercato e meno familistico non si è verificato”, scrive in un libro (“L’Italia al bivio. Classi dirigenti alla prova del cambiamento 1992-2022”, Franco Angeli, a cura di Franco Amatori, Pietro Modiano, Edoardo Reviglio) presentato alla Casa della cultura di Milano. Perché non è nato in Italia un grande attore internazionale né nelle banche d’investimento né nel risparmio gestito? si chiede Marco Onado, docente alla Bocconi. Nel primo caso vede due colpe: il freno esercitato da Mediobanca e la mancanza di un vero mutamento nel rapporto tra banca e impresa. Quanto ai fondi di investimento, “gli operatori italiani hanno sofferto due peccati originali: la maledizione delle performance di breve periodo e il rapporto simbiotico con la banca madre”. Modiano e Onado hanno da poco pubblicato insieme un libro edito dal Mulino intitolato “Illusioni perdute. Banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni” dove sono analizzate “le rose che non colsi”, parafrasando Guido Gozzano. E tuttavia non può essere sottovalutato il cambio di marcia nell’ultimo decennio.

 

In Italia non sono calati solo gli avvoltoi della finanza, o i fondi specializzati nel ridurre le imprese in spezzatini per “estrarre valore”

   
In Italia non sono calati solo gli avvoltoi della finanza, o i fondi specializzati nel ridurre le imprese in spezzatini per “estrarre valore”, come si dice, ma anche soggetti che comprano per investire in aziende con buone prospettive di crescita. Non guadagnano vendendole a pezzi, ma aumentando il fatturato, gli utili e il valore in borsa. Persino Kkr, quello che nel 1989 con la scalata a Rjr Nabisco aprì una nuova èra e si beccò l’etichetta di “barbaro alle porte”, oggi si presenta come uno strumento che investe risparmio a medio-lungo termine; e non in titoli volatili, ma addirittura in infrastrutture come la rete fissa di Telecom Italia. Grazie ai fondi di private equity molte imprese che non hanno voluto quotarsi e alle quali non bastano le risorse interne per finanziare l’espansione, trovano denaro liquido a condizioni migliori che non nelle banche commerciali. Ciò per molti versi fa soffrire la borsa italiana dominata soprattutto dalle banche e dalle aziende a partecipazione statale. Ma se pensiamo a quanti come il gruppo Barilla sono rimasti in famiglia e lontani da Piazza degli affari, dobbiamo rivalutare il sostegno che “i barbari” danno alla trasformazione dell’economia. Senza dimenticare il calcio dove la squadra del cuore si trasforma in impresa proprio grazie all’arrivo dei fondi d’investimento. 

  
Stato e capitale

Tutto il gran parlare che si fa delle privatizzazioni come di una gigantesca svendita del patrimonio nazionale nasconde una ben diversa realtà: “Fatta eccezione per Telecom Italia, le imprese dell’ex sistema delle partecipazioni statali sono ancora oggi tutte sotto il controllo statale”, sottolinea Edoardo Reviglio, già capo economista della Cassa depositi e prestiti. Facciamo i nomi: Eni, Enel, Snam, Terna, Leonardo, Fincantieri, Ansaldo Energia, Saipem, Italgas, Poste, Autostrade, Ferrovie. L’Ilva di fatto è in mano al Tesoro, così come il Monte dei Paschi di Siena. Della ex Alitalia ora Ita Airways, il governo manterrà il 59 per cento anche dopo l’arrivo di Lufthansa. Alla faccia del neoliberismo. Allora nulla è cambiato sotto il velo delle apparenze? Non del tutto. Le aziende pubbliche non vengono più pagate esclusivamente dai contribuenti; al contrario danno, distribuendo profitti, più di quanto ricevono. Il pacchetto delle società quotate vale quasi 70 miliardi di euro e ha reso in media il 5 per cento. Più o meno tutte queste imprese mostrano un nocciolo duro in mano allo stato e una maggioranza delle azioni sul mercato, comprate dai fondi d’investimento o da risparmiatori privati.

   

Un quadro contraddittorio, ma che poco ha a che fare con il declinismo dominante. I “campioni nascosti” escono dai cespugli

  

Un mélange di public company e azienda di stato che si trova anche in Francia, in Spagna e in forme diverse in Germania. La vera novità è la trasformazione della Cdp “diventata in pochi anni, insieme al ministero dell’Economia, la banca holding. Il nuovo capitalismo delle grandi imprese gira attorno a questo asse”, sostiene Reviglio. La politica si fa sentire, ma per lo più sulla nomina dei vertici, non tanto sulle strategie aziendali. Almeno finora, perché resta sempre forte il rischio che rinasca lo “stato ospedale”, con tanto di salvataggi decisi secondo logiche clientelari. Si annusa nell’aria una gran voglia di ri-nazionalizzazioni. Secondo Reviglio “l’assetto uscito dalle privatizzazioni appare complessivamente stabile, industrialmente forte ed evoluto”. Tra i grandi del primo capitalismo, sono finite in mani estere la Fiat e la Pirelli anche se in quest’ultima è aperta una singolar tenzone tra l’azionista cinese e il manager nonché socio di minoranza italiano. Mentre tra i grandi del quarto capitalismo sono ormai fuori dai confini le proprietà di Luxottica, Parmalat e di molti bei nomi della moda e del lusso (Gucci, Loro Piana, Bulgari solo per citare i maggiori). Uno studio di Fulvio Coltorti, già capo economista di Mediobanca mostra che nel 1991 le grandi imprese private superavano di poco quelle pubbliche e non c’erano significative presenze straniere. Oggi il fatturato delle aziende pubbliche sorpassa ampiamente quello delle private, mentre al loro posto si sono insediate le società estere. E’ il segno di una maggiore apertura del sistema italiano, non di un esproprio nazionale come sostengono i sovranisti. Emerge, dunque, un quadro certo contraddittorio, ma che poco ha a che fare con il declinismo dominante. I “campioni nascosti”, per usare la definizione dell’economista tedesco Hermann Simon, escono dai cespugli. Lo stesso Giuseppe De Rita ammette che è finito il modello del Censis, anche se non tornerà quello degli Agnelli. E’ in questo nuovo scenario che cresce il quinto capitalismo. La domanda oggi è se la classe politica vuole creare le condizioni per farlo maturare oppure soffocarlo nella culla.