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l'analisi

Il valore aggiunto delle università telematiche per il paese

Carlo Stagnaro

Questa tipologia di atenei non rappresenta un sostituto ma un complemento a quelli tradizionali. Si fondano su un modello di business differente e si rivolgono a una popolazione desiderosa di acquisire nuove e maggiori competenze. Ecco perché cercare di uniformarle a quelle classiche ha poco senso

La concorrenza viene spesso presentata alla stregua di una gara, in cui i partecipanti devono sforzarsi di migliorare le proprie prestazioni per conquistare l’ambito trofeo, cioè il favore dei consumatori. E’ una metafora che coglie alcuni aspetti ma rischia di far passare un messaggio sbagliato, cioè che la competizione si svolga su una sola dimensione (per esempio, la velocità): quindi, per ogni corsa c’è un solo vincitore, mentre gli altri se ne vanno con le pive nel sacco. In realtà non è così e in pochi casi questo emerge meglio che nella vicenda delle università telematiche

Sul tema si sta svolgendo sotto traccia uno scontro, che è al centro di un Focus di Luigi Marco Bassani e Carlo Lottieri pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni: il tentativo di estendere alle università telematiche delle regole, relative per esempio al rapporto numerico tra studenti e docenti o alla percentuale di lezioni da seguire in streaming, intese a replicare gli obblighi che gravano oggi sulle università in presenza. Questi interventi non hanno senso per una ragione banale: le università telematiche offrono un prodotto (la formazione) che è merceologicamente analogo a quello delle università in presenza, ma si rivolgono in gran parte a un pubblico che ha caratteristiche ed esigenze completamente diverse. Infatti, gli studenti delle telematiche (circa 250 mila) rappresentano oggi circa il 13 per cento del totale.

 

Non si tratta di persone sfuggite alle università tradizionali (che, dopo un periodo di contrazione, hanno ricominciato a crescere): sono, con ogni probabilità, individui che proprio grazie alla tecnologia possono accedere a nuove opportunità formative.  La differenza emerge molto bene dai dati riportati da Bassani e Lottieri: mentre nelle università in presenza l’80 per cento dei laureati ha non più di 23 anni, nelle telematiche il 60 per cento  ha oltre 28 anni. Non solo: le telematiche sono frequentate preferenzialmente da studenti lavoratori e residenti nelle regioni del Mezzogiorno. Esse raggiungono persone che, per ragioni di scelte di vita precedenti, di carriera, di reddito, di luogo di residenza o altro, difficilmente potrebbero essere intercettate dalle università tradizionali. Anzi, queste ultime, hanno sostanzialmente eliminato le lezioni serali che precedentemente cercavano di soddisfare almeno una porzione di tale domanda. 

 

Se questo è vero, allora anche la pretesa di imporre una quota di lezioni in streaming (anziché in formato asincrono) finirebbe per penalizzare proprio quelle fasce di popolazione che, per varie motivazioni, non hanno avuto l’opportunità di conseguire la laurea durante la prima parte della propria vita, e oggi avvertono l’esigenza di un potenziamento del proprio capitale umano. In questo senso, le telematiche rappresentano un fondamentale strumento di inclusione. Né vale la critica secondo cui le università telematiche in tal modo finirebbero per essere dei diplomifici che assolvono solo all’apparenza alla propria missione educativa. Infatti la tecnologia mette a disposizione gli strumenti per garantire che le lezioni vengano effettivamente seguite, cosa che non sempre accade nelle università in presenza (con un tasso di assenteismo stimato nel 70 per cento al secondo anno e al 90 per cento nei successivi). Perfino i voti smentiscono questa narrazione, visto che nelle telematiche solo il 26,2 per cento prende almeno 106/110, contro il 49,6 per cento degli atenei in presenza.
In sintesi, le università telematiche non rappresentano un sostituto ma un complemento a quelle tradizionali. Si fondano su un modello di business differente – che tra l’altro non sottrae risorse pubbliche agli altri atenei – e si rivolgono a una popolazione non solo bisognosa, ma desiderosa di acquisire nuove e maggiori competenze

 

La ministra dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini, dovrebbe osservare laicamente questi dati e interrogarsi su come rendere più dinamiche e attrattive le università tradizionali – le quali giustamente lamentano regole eccessive e spesso inutilmente paralizzanti. Se si conviene che l’Italia soffre di una carenza di laureati (specialmente nelle materie Stem) allora bisogna chiedersi come liberare le università in presenza dai lacci e lacciuoli, non come soffocare quelle telematiche.

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