l'analisi

Il Pd tifa per il Superbonus forever

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

In un surreale documento pieno di dati falsi e incoerenti, tra strafalcioni e calcoli sballati, il partito di Elly Schlein loda il bonus edilizio al 110% (“esprime l’inventiva e il genio tipico del nostro paese”) e perciò chiede che sia “senza scadenza”. Gratuitamente ed eternamente

Se l’avverbio che Giuseppe Conte associa al Superbonus è “gratuitamente”, quello del Pd è “eternamente”. Il bonus edilizio è per la sinistra come l’albero degli zecchini d’oro per Pinocchio, basta sotterrare i soldini e quelli si moltiplicano da soli. In Italia, come nel paese di Acchiappacitrulli.

Nel febbraio 2023, la commissione Bilancio della Camera avviò una “Indagine conoscitiva sugli effetti macroeconomici degli incentivi fiscali in materia edilizia”. Un approfondimento sui costi e sull’impatto di questo sussidio monstre, che ha superato la spesa di 140 miliardi (170 miliardi con il Bonus facciate), una somma senza precedenti nella storia della Repubblica e colpevolmente sottostimata dalla Ragioneria generale dello stato (di circa 100 miliardi). 

Dopo un anno, la commissione ha chiuso l’indagine e preparato una relazione finale, molto equilibrata: “Gli effetti positivi in termini di crescita economica e occupazionale non sono tali da controbilanciare gli effetti che si rilevano a carico della finanza pubblica”, è la conclusione. Rispetto a tali banali ed evidenti considerazioni non è d’accordo il Pd, che ha preparato una sorta di “dissenting opinion”. Ma il rapporto di 24 pagine, prodotto dai deputati dem, non è solo in disaccordo rispetto al documento di maggioranza: è in dissenso anche rispetto all’algebra, all’economia e alla logica.

 

I conti non tornano

Il Pd presenta una tabella di sintesi secondo cui al 2023 il Superbonus, che ha sussidiato 97 miliardi di euro di lavori per un esborso di 106,7 miliardi (97 per 110%), in realtà ha avuto “un costo effettivo di 35 miliardi”. Come ben sappiamo dai dati di contabilità nazionale aggiornati dell’Istat, la spesa complessiva alla fine del 2023 supera i 140 miliardi, 40 in più rispetto a quanto stimato dal partito di Elly Schlein. Ma, al di là del livello della spesa – che non è affatto un dato trascurabile – ciò che difetta è la logica. 

Il conto è questo. Il Superbonus produce un gettito di 42 miliardi, pari a un’aliquota del 43,3% (la pressione fiscale media in Italia) sui 97 miliardi di investimento. E così da 106,7 miliardi di costo totale si scende a 64,7 miliardi. Poi gli economisti del Pd sottraggono 4,9 miliardi di “risparmio energetico da efficientamento” e 3,8 miliardi di “risparmio energetico da autoconsumo”. E scendiamo a 55,9 miliardi. Inoltre, la spesa da Superbonus avrebbe prodotto una crescita ulteriore del 50%, quindi 48,5 miliardi (97 diviso 2) su cui si applica la solita aliquota del 43,3%, ed ecco che magicamente i forzieri del Tesoro vengono riempiti di altri 21 miliardi. Si scende così da 56 a 35 miliardi. Un affare, insomma. Su 106,7 miliardi, il 67% rientra nelle casse dello stato: “Si ripaga da solo”, direbbero nel paese di Acchiappacitrulli.

In questa analisi ci sono errori marchiani, anche al di là della metodologia di per sé discutibile di detrarre il gettito fiscale. Il Pd, come detto, inserisce circa 7,7 miliardi di “risparmio energetico” tra le entrate dello stato. Ma quelli sono risparmi privati, cioè di chi ha avuto la ristrutturazione di casa pagata dalla collettività. Ed è esattamente una delle ragioni per cui lo stato non dovrebbe pagare integralmente le ristrutturazioni, perché così si socializzano tutti i costi e si privatizzano i guadagni. Infatti nessun paese al mondo dispone di incentivi così alti: già il precedente 65% – come ha ricordato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – era il più generoso al mondo. E generalmente i sussidi si concentrano sui condomini e sulle famiglie a basso reddito: in Italia queste ultime non avevano alcun beneficio aggiuntivo rispetto ai benestanti, mentre edifici unifamiliari, unità indipendenti e persino castelli hanno assorbito circa il 35% delle detrazioni. Grazie a un emendamento del Pd, il Superbonus è stato esteso addirittura alle seconde case.

L’altro dato che non torna è l’assunzione di un moltiplicatore fiscale pari a 1,5: per ogni euro speso in Superbonus vengono prodotti 1,5 euro di pil. Varrebbe a dire che con una spesa di 140 miliardi di euro nel triennio 2021-23, il Superbonus avrebbe prodotto 210 miliardi di valore aggiunto. Ovvero una crescita di pil di 10,5 punti! Se aggiungiamo il Bonus facciate (26 miliardi moltiplicato sempre per 1,5) sono altri 2 punti di pil: in pratica tutta la crescita post-Covid sarebbe il prodotto integrale dei bonus edilizi. Significherebbe che dopo i lockdown che hanno paralizzato le attività e la produzione, senza il Superbonus, l’economia non sarebbe ripartita con le riaperture come è accaduto nel resto d’Europa (dove il Superbonus non esiste).

È un’ipotesi talmente irrealistica e scriteriata che viene smentita nello stesso documento: “Secondo i dati di contabilità nazionale il contributo degli investimenti in costruzioni residenziali alla crescita del pil nel biennio scorso è stata di 2 punti percentuali”, c’è scritto nella relazione del Pd, riportando i dati dell’analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb). In realtà solo “metà del contributo sarebbe riferito allo shock positivo generato dall’incentivo fiscale, ossia all’investimento in abitazioni aggiuntivo rispetto a quello che si sarebbe comunque effettuato in assenza dell’agevolazione”. Un punto di pil, quindi, e non dieci. “Va aggiunto che uno shock di spesa nel settore delle costruzioni si propaga nel resto dell’economia – prosegue il documento – con un moltiplicatore quasi unitario”. Così nella stessa relazione il Pd in una pagina spiega che il moltiplicatore fiscale è inferiore a 1, mentre nella tabella su cui fa i conti riporta che è pari a 1,5.

 

Superbuco e minigettito

C’è poi un altro problema. Come ha detto l’Upb in audizione, condividendo l’analisi della Banca d’Italia, solo la metà degli investimenti in edilizia residenziale è aggiuntiva: l’altra metà si sarebbe comunque realizzata e, quindi, per lo stato è una perdita secca. Pertanto anche l’aliquota media del 43,3% è fortemente esagerata, diciamo del doppio, rispetto al controfattuale. Nel volume “Gli Immobili in Italia 2023” realizzato dall’Agenzia delle entrate e dal Dipartimento delle Finanze del Mef, viene stimato per il biennio 2021-22 un gettito pari al 19% della spesa: meno di un terzo di quanto dichiarato dal Pd (67%). Applicando la stima dell’Agenzia delle entrate sulla spesa di 106 miliardi considerata dai dem, il costo netto del bonus è di 86 miliardi (una cinquantina in più dei 35 stimati dal Pd).

Il documento contiene anche passaggi di comicità involontaria. Per esempio, in più punti si dice che il bonus “genera deficit ma non genera debito”. Si fa fatica a comprendere il significato di un’affermazione del genere, dato che un altro modo per definire il deficit è “indebitamento”. Invece per il Pd “il debito per credito d’imposta da bonus edilizi non impatta sui parametri di Maastricht" (sic!). 

Sono affermazioni misteriose, che hanno a che fare con l’alchimia più che con l’economia. Non si sa chi ne sia l’artefice, se il capogruppo in commissione Bilancio Ubaldo Pagano, la capogruppo alla Camera Chiara Braga o il responsabile economico del partito Antonio Misiani, ma sorprende che un lavoro così approssimativo abbia passato il vaglio di Maria Cecilia Guerra che, oltre a essere una deputata della commissione Bilancio e responsabile Lavoro del Pd, è soprattutto una professoressa universitaria di Scienza delle finanze.

 

Non troppo alto, ma troppo breve

Il documento affronta anche le due principali critiche al bonus, ormai riconosciute da tutti: la smisurata generosità del credito, superiore al 100%, e l’eccessiva durata del provvedimento. Il Pd, però, queste due critiche le ribalta. Non è vero che il contributo al 110% toglie la contrapposizione di interessi tra beneficiario e impresa fornitrice: l’accusa è “troppo approssimativa e non corrisponde totalmente alla realtà”. La misura prevede un tetto massimo di spesa per ogni intervento, dice il Pd. Il punto che il Pd non vede, però, è proprio che con questo meccanismo nessuno aveva interesse a spendere meno del massimo. L’inondazione di denaro ha provocato una spinta inflazionistica che ha costretto il governo ad aggiornare i listini. Che il Superbonus abbia fatto lievitare i prezzi lo dice il Pd, nello stesso documento: “La tempistica troppo breve ha generato una corsa dei prezzi a partire dai ponteggi, pompe di calore, infissi, prezzi delle imprese edili (introvabili o improvvisate), installatori, termoidraulici, professionisti termotecnici, geometri, ingegneri e architetti (introvabili)”.

Il partito di Schlein scrive che il problema del Superbonus era la durata. Non nel senso che è durato troppo, dissestando le casse pubbliche, ma che è stato troppo breve. “Occorre un orizzonte temporale non inferiore a 10 anni o meglio una norma a regime senza scadenza”. Superbonus forever. Il contrario di quanto Misiani, da viceministro al Mef di Roberto Gualtieri, diceva al Parlamento: “Non è pensabile che lo stato si faccia carico interamente dei costi di ristrutturazione degli edifici privati. Ha molto senso in una fase di grave crisi, ma è impensabile che per i prossimi 10-20 anni questo meccanismo rimanga uguale a sé stesso”. Visti i frutti dell’albero degli zecchini d’oro, Misiani si è ricreduto.

 

Emissioni di debito e CO2

Perfino sul terreno teoricamente più facile – quello relativo agli obiettivi ambientali – il documento del Pd fa acqua. Che per raggiungere i target europei su emissioni ed efficienza servano incentivi per l’efficienza energetica è pacifico: lo ha riconosciuto anche il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin commentando la direttiva “case green”. Il problema è quali incentivi e quanto generosi: il Pd sembra convinto che queste domande non abbiano diritto di cittadinanza. Anzi, nel documento confonde tre dimensioni che, pur legate l’una all’altra, sono distinte: i minori consumi di energia, la riduzione delle bollette e il taglio delle emissioni. Da una prospettiva strettamente ambientale, solo queste ultime hanno rilevanza pubblica.

Le emissioni dipendono certamente dai consumi, ma non solo da essi. A parità di consumi, il riscaldamento di un edificio può avere impatti ambientali molto diversi a seconda che l’energia utilizzata sia prodotta da fonti low-carbon o da fonti fossili. Poiché uno degli obiettivi fondamentali che stiamo perseguendo è la produzione di (quasi) tutta l’energia elettrica necessaria da fonti verdi e la sostituzione del gas naturale con green gas (idrogeno e biometano), ne segue che – in prospettiva – il risparmio energetico produrrà benefici ambientali decrescenti. E dunque i vantaggi degli investimenti oggi sostenuti andranno prevalentemente, e in misura crescente nel tempo, alle famiglie beneficiarie dei bonus (in gran parte a medio-alto reddito).

A loro volta, i consumi dipendono da numerose variabili. Alcune sono esogene: per esempio, il calo della domanda degli ultimi due inverni è influenzato dalle temperature miti. Altre sono di natura comportamentale, come la temperatura che si fissa sul termostato. Altre variabili sono relative alla prestazione energetica degli edifici ed è qui che interviene il Superbonus. Il controvalore economico del risparmio dipende sia dai consumi, sia dai prezzi dei prodotti energetici. A parità di riduzione dei consumi, il risparmio monetario realizzato nel 2022 (anno di prezzi record) potrà difficilmente essere eguagliato in futuro.

 

Millemila miliardi

Qui il documento del Pd prende uno svarione talmente grande che vogliamo sperare sia un refuso. Grazie al Superbonus, leggiamo, “si stima un risparmio annuo di 30 miliardi da parte delle famiglie, pari a un risparmio energetico in bolletta di 1.000 euro per unità immobiliare efficientata”. Per conseguire quel risparmio bisogna assumere che gli interventi edilizi abbiano riguardato 30 milioni di abitazioni! Nel qual caso non ne resterebbero praticamente più da aggiustare, mentre gli interventi hanno riguardato meno di mezzo milione di edifici (il 4% dei 12 milioni esistenti). L’Enea parla di 3 miliardi di euro di risparmio annuo sulla base di una stima parametrica (probabilmente piuttosto larga) legata alla classe energetica degli edifici. Prendendola per buona, per rientrare delle detrazioni complessive (che al 31 dicembre 2022, epoca della stima, valevano 51 miliardi) serviranno ben 17 anni.

In compenso, il Superbonus ha spinto interventi non sempre efficienti: come riconosce l’Enea “i costi specifici unitari [cioè per kWh risparmiato] risultano più elevati rispetto ai corrispondenti dell’Ecobonus, e in parecchi casi superano il doppio. Ciò è dovuto alla maggiore complessità della procedura, ai requisiti aggiuntivi da rispettare, ai differenti adempimenti”. E questo, unitamente all’intervento su immobili che in parte erano già relativamente efficienti, ha prodotto anche un elevato costo implicito di abbattimento delle emissioni: sulla base dei dati del 2021, uno studio pubblicato sulla rivista “Energia” ha stimato conservativamente un costo implicito di 150-200 euro/tonnellata, superiore del doppio ai massimi raggiunti dai certificati di emissione nel 2022 e circa il quadruplo dei valori attuali.

 

Il tipico genio italico

Un esame oggettivo del Superbonus – come del resto emerge dall’indagine conoscitiva della commissione Bilancio – non può che riconoscerne il costo spropositato, gli effetti perversi e l’insostenibilità per le finanze pubbliche, che mortificano qualunque beneficio (in termini di crescita economica e occupazionale o di riduzione di consumi ed emissioni) che esso possa aver consentito. Ciò nonostante, il Pd si spinge laddove neppure il papà del Superbonus, Giuseppe Conte, avrebbe mai osato: propone di fare del Superbonus una “norma stabile (a regime)” e “senza scadenza”.

Come unico limite, suggerisce di ridurre l’aliquota massima al 95% (lasciando una piccolissima quota dell’investimento a carico del beneficiario) e di graduarla rispetto al reddito pro capite. Quindi, chi ha un reddito inferiore a 40 mila euro per ogni membro del nucleo avrà diritto al 95% di sconto, per calare attraverso un paio di gradini al 50% a favore di chi ha un reddito tra i 57 e i 67 mila euro. C’è un doppio problema. Primo: poiché il tetto è legato al numero dei membri del nucleo familiare, praticamente non ne resta fuori nessuno. Per esempio, per avere diritto al massimo della detrazione (95%) una famiglia di quattro persone dovrebbe stare al di sotto dei 160 mila euro annui (40 mila per 4). Secondo: utilizzando come parametro il reddito dichiarato (anziché l’Isee) non esiste neppure la finzione di un contrasto all’evasione.


 Il Pd scrive patriotticamente che il Superbonus esprime “l’inventiva e il genio tipico del nostro paese” e che pertanto “vari paesi hanno guardato a noi per il Superbonus”. Sicuramente, l’hanno fatto con l’ammirazione che si deve al paese di Acchiappacitrulli.

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