Grandi investimenti in macchinari e nuove tecnologie con il Piano Industria 4.0. Nella foto LaPresse, la fiera A&T Automation and Testing, lo scorso febbraio a Torino

L'Italia che non ti aspetti: cresce, a dispetto di tutti

Marco Fortis 

È uscita a razzo dalla pandemia, è cresciuta più di Francia e Germania per quattro anni consecutivi. Ha l’export più competitivo e l’inflazione più bassa del G7, batte tutti i grandi paesi europei per dinamica del pil pro capite. Fatti e numeri che smentiscono l’eterna lagna nazionale

C’è l’Italia dei luoghi comuni, dei pregiudizi e dell’autolesionismo mediatico, secondo cui la nostra economia è in declino inarrestabile, non è competitiva, non cresce, non ha futuro. E poi c’è l’Italia vera: quella delle imprese manifatturiere del made in Italy che innovano e conquistano i mercati mondiali; quella di un’agricoltura che si contende ogni anno il primo posto in Europa per valore aggiunto con la Francia; quella di un turismo che è tornato ai livelli pre Covid-19 per numero di pernottamenti internazionali e che fa dell’Italia il paese dell’Unione Europea più visitato dai tedeschi, nostri primi clienti, e dai turisti provenienti dagli altri continenti (americani, giapponesi e cinesi, in primis, ma anche australiani, coreani, turchi e sudafricani).

C’è l’Italia farlocca, economicamente in panne, descritta da un recente articolo dell’Economist che spera che il governo Meloni possa far “rinvigorire l’Italia S.p.A.” da chissà quale patologia immaginata dal settimanale britannico: un articolo che evidentemente non ha capito che l’Italia, dopo le riforme di Renzi e Draghi, ha innestato la quarta, crescendo di oltre il 12 per cento negli ultimi tre anni e il problema, ora, è casomai che l’attuale governo non commetta errori o fallisca l’attuazione del Pnrr, facendo perdere alla nostra economia la velocità acquisita. 

Oppure c’è l’Italia “improbabile outperformer d’Europa”, di un altro recente articolo straniero, questa volta del “Financial Times”, che riconosce, sì, che l’Italia è il grande paese europeo il cui pil è cresciuto di più rispetto ai livelli pre pandemia, ma che attribuisce tale progresso solo ai superbonus edilizi, dimenticando il contributo degli investimenti 4.0 e il fatto che il nostro paese è l’unico ad aver riportato i consumi pro capite delle famiglie sopra i livelli del 2019. Un articolo, inoltre, che conclude sentenziando che il nostro miracolo non potrà durare: chissà mai perché, poi; l’hanno semplicemente deciso loro in redazione.

E c’è anche l’Italia, sempre non vera, dell’eterna lamentazione nazionale (mentre quella vera è quasi sempre ignorata). L’Italia dove fanno audience solo le notizie economiche cattive, l’Italia che perennemente non funziona e la colpa di ciò è regolarmente attribuita, nello scontro politico-mediatico permanente che ci contraddistingue, al governo di turno. Questa Italia, così fragile e vulnerabile, nei nostri titoli di testa è sempre relegata a essere il “fanalino di coda” o l’“ultima in Europa”. E perfino quando i dati positivi diventano evidenti e non si può far finta di non vederli, si fa di tutto per sminuirli. Esempi: il pil va forte? E’ solo perché facciamo troppo deficit. L’occupazione è ai massimi? Sì, ma non è di qualità. Sinner è un fenomeno? Sì, ma non è italiano, è tirolese. Ecc. ecc. Si tratta di un tipo di comunicazione masochistica, che dura da tempo e che va contro noi stessi. L’assurdo è che poi ci lamentiamo anche se la nostra immagine all’estero è pessima e se lo spread si impenna. Ma siamo noi i primi ad autodenigrarci e a sminuirci agli occhi del mondo.

Ebbene, non è questa l’Italia che descriveremo in questo articolo bensì scorreremo il lungo elenco dell’Italia dei numeri reali, che è assai diversa da quella dei cliché e dei vittimismi. Numeri che la Fondazione Edison ha analizzato in un report preparato per il governo italiano in vista della presidenza del G7. Stiamo parlando di un’Italia che si presenta al mondo delle maggiori economie occidentali con i voti in economia largamente migliori, assieme agli Stati Uniti. È l’Italia che dal 2015 in poi ha cambiato passo e che, nonostante i postumi della pandemia e della guerra russo-ucraina, nel 2023 è riuscita a crescere ancora dello 0,9 per cento dopo la super-crescita del biennio 2021-2022, facendo lo scorso anno meglio delle altre tre maggiori economie europee del G7 stesso

L'Italia da ultima a prima della crescita del pil pro capite

Di che Italia stiamo parlando? Cominciamo dall’indicatore chiave dello sviluppo, pur con tutti i suoi limiti: il pil pro capite. Qui i cantori del nostro presunto declino sono stati impegnati per anni nel raccontarci, anche con dati spesso non corretti, che da fine secolo scorso in poi l’Italia è sempre stata ultima per crescita tra le maggiori economie avanzate.

Basta usare dati corretti e spostare indietro di sessanta anni la data di partenza da cui misurare la crescita stessa e questo teorema crolla. 

Infatti, secondo gli indicatori della banca dati AMECO della Commissione europea, dal 1964 al 2023 il pil pro capite italiano è cresciuto in termini reali né più né meno come quelli degli altri principali paesi, cioè dell’1,8 per cento medio annuo, esattamente come il Regno Unito, solo di un decimale meno di Stati Uniti e Francia (1,9 per cento) e di un decimale in più di Germania e Canada (1,7 per cento). Solo il Giappone ha fatto meglio di tutti (2,7 per cento), grazie principalmente al suo forte sviluppo dagli anni 60 ai primi anni 90 del secolo scorso.

 

     

Negli ultimi sessant’anni l’Italia ha avuto soltanto un decennio pessimo, il 2004-2013, in cui ha penato prima a causa degli effetti della crisi mondiale dei mutui subprime del 2009 e poi in seguito al “contagio” del debito pubblico greco e alla successiva austerità del 2011-2013. In quel decennio i nostri consumi e i nostri investimenti privati e pubblici sono crollati. Ma dobbiamo forse piangere per l’eternità sulla stentata dinamica economica di quel periodo? No, di certo, anche perché nei decenni più lontani 1964-1973, 1974-1983 e 1984-1993 siamo stati tra i migliori paesi del G7 per crescita del pil pro capite. E perché comunque, come abbiamo visto, su sessant’anni siamo stati più o meno bravi come tutti gli altri.

Ma, soprattutto, è ora di lasciarci definitivamente alle spalle la frustrazione di quel decennio perduto 2004-2013 per un motivo molto semplice: perché ciò che più conta in economia è il tempo presente, cioè il momento in cui viviamo. E allora, guardando ai giorni nostri, scopriamo che nell’ultimo decennio, il 2014-2023, l’Italia (con un più 1,1 per cento medio annuo) è stata seconda solo agli Stati Uniti (1,6 per cento) per progresso del pil pro capite tra i paesi del G7. Abbiamo battuto anche la lamentosa narrativa dello “zero virgola” con cui i media italiani e stranieri ci hanno bombardato per anni. Infatti, nell’ultimo decennio la crescita da “zero virgola” l’abbiamo lasciata agli altri: Regno Unito (0,9 per cento), Giappone, Germania e Francia (0,7 per cento), Canada (0,6 per cento).

Stati Uniti e Italia superstar per incremento del pil nel post Covid-19

In particolare, grazie soprattutto alle importanti riforme avviate prima della pandemia, tra cui quella della fiscalità degli investimenti delle imprese con il Piano Industria 4.0 targato Renzi-Guidi, e alla sapiente gestione della ripresa del paese da parte del governo Draghi, l’Italia ha super performato nel quadriennio 2020-2023, con un incremento secco del suo pil pro capite del 4,9 per cento rispetto al 2019. Soltanto gli Stati Uniti, nel G7, hanno fatto meglio di noi (5,5 per cento). Seguono, più distaccati, il Giappone (2,8 per cento) e il Canada (1,3 per cento), mentre le altre economie sono rimaste praticamente ferme o sono andate indietro: Regno Unito (0,4 per cento), Francia (0,1 per cento), Germania (meno 1 per cento). Anche l’economia della Spagna, depurata della crescita della popolazione, è praticamente rimasta sui livelli del 2019 (con un pil pro capite fermo a più 0,1%, come la Francia).

L’aspetto più rilevante da evidenziare è che l’Italia è riuscita a crescere molto nell’ultimo quadriennio pur in presenza di un forte calo demografico (abbiamo perso 786 mila abitanti rispetto al 2019, pari a meno 1,3 per cento). Mentre gli altri maggiori paesi dell’Euro area hanno continuato a sperimentare una significativa crescita della loro popolazione e quindi del loro numero di consumatori. Fatto, questo, non trascurabile perché i consumi sono la componente della domanda più importante e che più contribuisce a spingere il pil. Ciò nonostante, i pil totali di Spagna, Francia e Germania sono aumentati nel periodo 2020-2023 meno di quello italiano. Nel 2023, infatti, noi ci siamo collocati al 3,5 per cento sopra i livelli del 2019, contro, ad esempio, il 2,5 per cento della Spagna (dovuto per il 2,4 per cento all’incremento demografico), l’1,5 per cento della Francia (più 1,4 per cento l’incremento demografico) e lo 0,7 per cento della Germania (più 1,7 per cento l’incremento demografico). 

Tra i paesi del G7, comparando i livelli dei pil totali del quarto trimestre 2019 pre pandemia con quelli del quarto trimestre 2023, osserviamo che dietro gli Stati Uniti (più 8,2 per cento), che nel 2020 non hanno fatto dei lockdown paragonabili a quelli dei paesi europei, figurano Canada (4,5 per cento) e Italia (4,2 per cento), nettamente davanti a Giappone (2,8 per cento), Francia (1,8 per cento), Regno Unito (1 per cento) e la molto malmessa Germania (0,1 per cento), il cui modello di sviluppo, basato sul gas a basso prezzo di Putin e sul mercato cinese, è letteralmente imploso.

   

       

Anche negli ultimi sei mesi del 2023 l’Italia è il Paese del G7 cresciuto di più dopo gli Stati Uniti, i quali hanno fatto registrare un’espansione ragguardevole (più 2 per cento). Infatti, rispetto al secondo trimestre 2023 il pil italiano è aumentato dello 0,4 per cento, contro le deboli crescite di Francia e Canada (0,1 per cento) e i cali di Germania (meno 0,3 per cento), Regno Unito (meno 0,4 per cento) e Giappone (meno 0,7 per cento).

Il forte calo del rapporto debito/pil italiano

È vero che i superbonus edilizi sono stati vergognosamente esagerati e hanno favorito frodi. In più, ancora non sappiamo quanto esattamente peseranno sulle finanze pubbliche in termini di minori entrate nei prossimi anni. Ma il loro contributo alla crescita italiana nel quadriennio 2020-2023 lo hanno dato (come ha sempre sostenuto Giuliano Ferrara su queste colonne) e il surplus di crescita che abbiamo avuto con l’edilizia rispetto agli altri paesi ha permesso anche una diminuzione del nostro debito pubblico in rapporto al pil

Infatti, rispetto al picco del 154,9 per cento del pil toccato nel 2020, il debito italiano è sceso al 137,3 per cento nel 2023. Si tratta di un calo assai rilevante e il più forte tra le grandi economie della moneta unica. Infatti, nello stesso periodo il debito della Spagna è diminuito di 10,5 punti percentuali di pil, quello tedesco soltanto di 4 punti e quello francese appena di 2,7 punti. L’Italia ha fatto meglio anche dei paesi cosiddetti “frugali”. Infatti, la Danimarca nello stesso periodo ha ridotto il suo rapporto debito/pil di 12,2 punti percentuali, la Svezia di 10 punti, i Paesi Bassi di 8,8 punti e l’Austria di 4,8 punti.

Al netto nella componente degli interessi, nel periodo 2020-2023 il nostro disavanzo pubblico in rapporto al pil, cioè il deficit primario, è stato sostanzialmente simile a quello di Francia o Spagna ma l’Italia è cresciuta di più. Quando i dati sui conti pubblici del 2023 saranno disponibili per tutti i paesi Ue, questo aspetto risulterà ancora più chiaro e smentirà coloro che cercano di attribuire la più forte crescita economica dell’Italia di questi ultimi anni solo a uno sforamento dei conti pubblici. 

In conclusione, l’Italia, pur con un forte calo della popolazione e facendo sostanzialmente gli stessi deficit degli altri paesi durante e post il Covid-19 (superbonus edilizi inclusi), ha “stracciato” tutti.

L’inflazione cala più che altrove

L’Italia si presenta all’appuntamento della presidenza del G7 anche con l’inflazione tendenziale più bassa. Infatti, secondo l’Ocse, a gennaio 2024 l’indice dei prezzi al consumo ha fatto registrare in Italia una variazione rispetto allo stesso mese dell’anno precedente pari a più 0,8 per cento. Il Giappone era invece a più 2,2 per cento, la Germania e il Canada al 2,9 per cento, gli Stati Uniti e la Francia al 3,1 per cento e il Regno Unito al 4,3 per cento.

L’occupazione ai massimi storici

Secondo i dati destagionalizzati dell’Istat, alla fine del quarto trimestre dello scorso anno l’Italia aveva 23 milioni e 729 mila occupati, nuovo record storico, cioè 661 mila occupati in più di quanti il nostro paese ne contava nel quarto trimestre 2019, prima dello scoppio della pandemia.

L’onda lunga della ripresa ha permesso innanzitutto, durante il governo Draghi, di recuperare 991 mila occupati rispetto al minimo toccato durante la crisi nel secondo trimestre 2020, portando il numero dei posti di lavoro alla fine del terzo trimestre 2022 già a quota più 49 mila rispetto ai livelli pre crisi. In seguito, durante il governo Meloni, l’occupazione è aumentata di ulteriori 612 mila unità.

Notevole è stato il contributo delle costruzioni alla crescita degli occupati tra il quarto trimestre 2019 e il quarto trimestre 2023: più 203 mila posti di lavoro. Altri 391 mila posti di lavoro sono stati creati dai servizi e 144 mila dall’industria in senso stretto, contro un calo di 77 mila occupati nell’agricoltura, silvicoltura e pesca. Il tasso di occupazione nel quarto trimestre 2023 ha raggiunto anch’esso un massimo storico, sia a livello nazionale (61,1 per cento), sia a livello delle tre macro-ripartizioni: Nord (69,8 per cento), Centro (66,1 per cento) e Mezzogiorno (48,6 per cento).

In epoca recente, non vi è stato un ciclo di ripresa dell’occupazione così intenso come durante la fase di uscita dalla pandemia durante i governi Draghi e Meloni. L’unico altro periodo di analoga capacità di creazione di posti di lavoro è stato quello dei governi Renzi e Gentiloni durante i quali il numero di occupati è cresciuto tra il secondo trimestre 2014 e il secondo trimestre 2018 di 1 milione e 180 mila unità rispetto ai livelli del primo trimestre 2014. 

Più crescita e più lavoro uguale meno deprivazione materiale e sociale

Il reddito di cittadinanza non è certamente riuscito ad “abolire” la povertà, pur mitigandone gli effetti durante e dopo la pandemia. E’ invece certo che dal 2015 in poi la deprivazione materiale e sociale in Italia è stata quasi abolita. Per lo meno, essa è stata ridotta enormemente. E ciò non grazie a misure assistenziali ma grazie alla crescita dell’economia, degli investimenti, dei redditi e dell’occupazione. 

I nuovi indicatori Europa 2030 mettono in evidenza un dato per certi aspetti clamoroso, completamente sfuggito all’attenzione degli osservatori e dei media. La cosiddetta “severa deprivazione materiale e sociale” (definita come l’incapacità da parte di un individuo di soddisfare almeno sette su tredici fabbisogni “basici” indicati dall’Eurostat) è diminuita molto in Italia mentre è in forte aumento negli altri tre maggiori paesi dell’Eurozona, Germania, Francia e Spagna.

Infatti, nel 2015 le persone in condizioni di severa deprivazione in Italia erano ben 7 milioni e 386 mila, mentre nel 2022 il numero è sceso verticalmente a 2 milioni e 613 mila (contro i circa 5,1 milioni della Germania, i 5 milioni della Francia e i 3,6 milioni della Spagna). Nel 2015 la percentuale di persone in severa deprivazione in Italia era pari al 12,1 per cento, contro il 5,7 della Germania, il 6,8 della Francia e il 7,4 della Spagna. Nel 2022 la situazione appare completamente ribaltata. Infatti, l’Italia è scesa al 4,5 per cento, il suo valore minimo di sempre e il più basso tra le quattro grandi nazioni della moneta unica, la Germania è invece salita al 6,2 per cento (suo massimo storico da quando esistono le serie), la Francia è salita al 7,7 (anche in questo caso un massimo storico), mentre la Spagna è passata al 7,7 per cento nel 2022 e, secondo una prima stima, al 9 per cento nel 2023.

Nel 2022, il Nord-Est (1,6 per cento), il Centro (2,1 per cento) e il Nord-Ovest (2,2 per cento) dell’Italia vantavano percentuali di abitanti in condizioni di severa deprivazione materiale e sociale inferiori al dato medio di un paese come l’Olanda (2,5 per cento). Così come ben nove nostre regioni: Bolzano (zero per cento), Emilia-Romagna (1 per cento), Valle d’Aosta (1 per cento), Umbria (1,2 per cento), Lombardia (1,5 per cento), Friuli-Venezia Giulia (1,6 per cento), Toscana (1,6 per cento), Marche (2,1 per cento), Veneto (2,2 per cento). Altre due regioni italiane erano solo di poco sopra al dato medio dei Paesi Bassi, cioè Lazio (2,6 per cento) e Trento (2,9 per cento). Mentre le nostre Isole (6,2 per cento) erano messe come la media della Germania e il nostro Sud (10,7 per cento) si collocava non molto al di sopra del dato medio della Spagna del 2023.

L’export italiano è il più competitivo del G7

Il made in Italy della manifattura e dell’export, per anni dato anch’esso per spacciato o con scarse prospettive da parte della nostra narrativa declinista, si sta togliendo davvero delle belle rivincite. Infatti, secondo le prime stime del Wto, nel 2023 l’export italiano ha superato quello della Corea del Sud e ha raggiunto un nuovo massimo storico di 677 miliardi di dollari. 

Escludendo dalla classifica i Paesi Bassi, il cui export effettivo è solo circa la metà del dichiarato (essendo il resto puro transito di merci di altri paesi nei porti olandesi), l’Italia è ormai il quinto esportatore mondiale, a soli 40 miliardi di dollari dal Giappone, un paese che ha il doppio dei nostri abitanti e che fino a pochi anni fa era preso a modello per il “just in time” e la “qualità totale”. Prerogative che oggi sono invece del nostro made in Italy. Che fonda la sua forza sulla differenziazione dei prodotti, sulle filiere corte dei distretti industriali che innervano le province italiane e su un nucleo di circa 9.200 imprese medie e medio-grandi con 50-1.999 addetti che non ha nessuno al mondo, le quali realizzano i tre quarti del nostro intero export manifatturiero.

La competitività delle nostre imprese è dimostrata dal fatto che nel periodo 2015-2023 l’export italiano in dollari è cresciuto del 48 per cento, quasi il doppio delle esportazioni di Francia (28 per cento) e Germania (27 per cento) e il triplo di quelle del Giappone (15 percento). Nel G7 l’Italia precede anche gli Stati Uniti (il cui export nello stesso periodo è aumentato del 34 per cento), il Canada (39 per cento) e il Regno Unito (12 per cento). Citiamo solo un paio di esempi di successi eccezionali. Nel 2022 il nostro export farmaceutico ha superato i 50 miliardi di dollari ed è quello cresciuto di più tra i grandi paesi produttori del mondo (più 39 per cento). Nel 2023 l’export italiano di yacht e nautica da diporto ha sfondato il tetto dei 4 miliardi di euro. 

Industria 4.0: un mare di investimenti in macchinari e nuove tecnologie

Una buona parte della accresciuta competitività della manifattura italiana e dell’export dipende anche dallo straordinario successo del Piano Industria 4.0, grazie al quale le fabbriche italiane hanno investito massicciamente nei macchinari, negli impianti e nelle nuove tecnologie, diventando fucine di innovazione e di successo. Le imprese si sono ammodernate tecnologicamente, sono entrate nel mondo del digitale e del cloud, hanno riorganizzato processi produttivi, logistica, rapporti con fornitori e clienti. Si sono reinventate e hanno inventato nuovi prodotti e servizi. Sicché le imprese manifatturiere italiane piccole con 20-49 addetti, quelle medie con 50-249 addetti e perfino le grandi con più di 250 addetti, se escludiamo il settore auto, hanno oggi una produttività del lavoro più alta delle imprese tedesche.
Una statistica dimostra l’eccezionale impatto che ha avuto il Piano Industria 4.0 sulla nostra economia. Nel 2021 il peso degli investimenti in macchinari e in impianti sul pil è salito in Italia al 7,1 per cento, il secondo più alto valore tra i paesi del G7 dopo quello del Giappone (8,2 per cento), davanti a Germania (6,3 per cento) e Stati Uniti (5,9 per cento). 

Ma c’è anche un altro dato che può far capire i progressi che il nostro sistema produttivo ha compiuto negli ultimi anni, grazie alla rivoluzione degli investimenti tecnologici avvenuta nel ramificato e dinamico tessuto delle nostre imprese. Il tasso di crescita dello stock complessivo di robot industriali installati in Italia è stato incredibile, pari al 7 per cento medio annuo nel periodo 2017-2022, pur includendo il rallentamento del 2020, frenato dalla pandemia e dai lockdown. Nei settori di maggiore specializzazione della nostra economia la crescita del numero di robot installati è stata perfino più forte: più 9 per cento medio annuo nell’industria alimentare, delle bevande e del tabacco; più 10 per cento sia nel comparto dei macchinari industriali sia in quello del tessile-abbigliamento-pelli-calzature. 

Nel 2022 l’Italia figurava ormai quarta al mondo per numero di robot installati nel settore dei prodotti in metallo e dei macchinari industriali, uno dei punti di forza della nostra manifattura, con ben 25.374 robot, dietro solo a Cina, Giappone e Germania ma nettamente davanti a un colosso come gli Stati Uniti (15.895 robot). Nell’industria degli alimentari, delle bevande e del tabacco, l’Italia è addirittura terza al mondo per stock di robot, con 10.866 unità installate, preceduta solo da due giganti come Cina (25.940 robot) e Stati Uniti (21.060 robot). 

La sfida più importante del Pnrr: la digitalizzazione della Pubblica amministrazione

Dunque, le nostre fabbriche sono ormai modernissime e competitive, piene di nuove tecnologie, di macchinari avanzati, di robotica e di intelligenza artificiale. Sono pronte per far dialogare le proprie macchine, i propri magazzini, i propri terminali e i propri robot sulle autostrade digitali, sulle banche dati e sulle piattaforme open source di tutto il mondo con altre imprese, con fornitori e clienti, con università e centri di ricerca, con istituzioni di ogni tipo. 

Peccato, però, che il processo di digitalizzazione nel nostro paese sia ancora lento e incompiuto e che su questo fronte il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sia in grave ritardo. Ciò ci penalizza. Perché le fabbriche del made in Italy sono ormai tutte, dalle medio-piccole alle medie fino alle più grandi, come delle Ferrari di formula 1 pronte a scattare ma sono costrette a correre non su una pista scorrevole ed ampia bensì su uno stretto “sterrato” digitale, pieno di buchi e ostacoli. Basti pensare che molti distretti industriali italiani ancora oggi non dispongono nemmeno della fibra ottica. Inoltre, imprese e cittadini devono dialogare con una pubblica amministrazione ancora non sufficientemente digitalizzata, con lungaggini burocratiche e autorizzative anacronistiche. E’ qui che più che mai servirebbe un salto di efficienza decisivo da parte della nostra Pa, che dovrebbe prendere ad esempio i casi di quei paesi del Nord Europa dove ormai l’e-government è una realtà, con piattaforme open source che permettono avanzati scambi di informazioni tra istituzioni pubbliche e soggetti privati. E dove vige l’once-only principle, cioè un’informazione viene chiesta al cittadino o all’impresa una volta sola, senza gravare i soggetti privati di burocrazia. Sta poi alle diverse entità della Pa scambiarsi tra loro quell’informazione originaria.

Se non vogliamo perdere i vantaggi competitivi acquisiti dalle nostre imprese, occorre investire non solo nell’Industria 5.0 ma rendere strutturali anche gli incentivi fiscali per gli investimenti in macchinari tradizionali, mantenere elevato il flusso di risorse della Nuova Sabatini e procedere a tappe forzate sulla strada della digitalizzazione del nostro paese e dello stato.   

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