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l'analisi

Iva evasa: i problemi del concordato preventivo e i dati sul gettito in calo

 Marco Leonardi e Leonzio Rizzo

Inasprire le norme sull'accertamento fiscale per chi non accetta il concordato è l’ultima occasione per non far pagare le imposte solo ai lavoratori dipendenti e pensionati. Qualche numero

Qualche settimana fa su questo giornale ci auguravamo che il governo utilizzasse il concordato preventivo per farne uno strumento di lotta all’evasione invece che uno strumento fallimentare per cui pochi lo usano e chi lo usa evade come prima. Per far funzionare il concordato preventivo avrebbe senso che l’Agenzia delle entrate si concentrasse sui contribuenti con Isa minore di 8. L’Isa è un indice di affidabilità fiscale, che va da 1 a 10, calcolato sulla base di un modulo che ogni contribuente compila con i dati del proprio reddito e qualche informazione aggiuntiva. Il governo ha effettivamente puntato sul fatto che alcuni contribuenti dichiareranno un Isa di 8 al fine di accedere al concordato. Questo sistema funzionerebbe se venissero migliorati gli Isa, accompagnati da indagini sul campo, e soprattutto se ci fosse la minaccia credibile di una lotta seria all’evasione verso chi non accettasse il concordato. Qui casca l’asino, e la virtù del governo si proverà sulle norme sull’accertamento che non possono essere troppo morbide, pena il fallimento di tutta l’operazione. Probabilmente ci sarà scarsa adesione e anche chi aderirà porterà ben poco gettito aggiuntivo (che comunque il governo stima in 700 milioni e nel lungo periodo addirittura 2 miliardi, come già Tremonti con un’operazione simile stimò 3,6 miliardi di gettito a fronte di circa 57 milioni raccolti). Peccato perché sembra davvero l’ultima occasione per far pagare le imposte in un’Italia in cui ormai vengono pagate in larghissima parte da 5 milioni di lavoratori dipendenti e pensionati con un reddito sopra i 35 mila euro, come ripete da tempo Alberto Brambilla di Itinerari Previdenziali. Per tutti gli altri si è davvero raschiato il fondo del barile. Non solo i dipendenti sotto i 35 mila euro pagano pochissima Irpef, ma ormai anche pochissimi contributi sociali. I quasi 2 milioni di forfettari pagano il 15 per cento del loro reddito forfettario, non pagano Iva e fino all’anno scorso neanche facevano la fattura elettronica. Il lavoro autonomo evade l’incredibile cifra del 70 per cento del reddito teorico. Quanto può durare un sistema così squilibrato? 

I forfettari, infatti, pagano poche imposte anche se hanno un fatturato fino a 85 mila euro: un professionista con fatturato di 80 mila euro che ha pochi costi da sopportare paga tra tasse e contributi circa 9 mila euro annui contro il doppio di un lavoratore dipendente. L’argomento a favore del forfait è che gli autonomi pagherebbero tutti i contributi previdenziali (25 per cento), mentre i dipendenti pagano normalmente il 10 per cento del salario lordo in contributi previdenziali e il resto è a carico del datore di lavoro. Ma, a parte che l’incidenza reale dei contributi a carico del datore si trasla su un minore salario, ormai siamo in una situazione per cui i dipendenti sopra i 35 mila euro pagano con le loro imposte e contributi una buona parte (attraverso la fiscalità generale) delle pensioni dei dipendenti sotto i 35 mila euro e quelle degli autonomi sotto gli 85 mila euro.

Vi è di fatto un’azione politica che tende a legittimare una diversità di trattamento tra lavoratori dipendenti e autonomi, sia nell’entità di imposte da pagare sia nelle regole di determinazione dell’imponibile. Nel caso del lavoro dipendente le regole sono chiare, nel caso del lavoro autonomo si sta sempre più virando verso una contrattazione tra stato e contribuente che contempla un atteggiamento comprensivo verso eventuali omissioni.

Questa impostazione produrrà dei risultati in termini di recupero dell’evasione? Secondo noi no, la semplificazione della flat tax è giustificata solo per valori di fatturato molto minori degli 85 mila attuali. Il concordato fiscale è giustificabile solo quando combatte l’evasione e non quando giustifica l’incremento nella tendenza a evadere. Le prime avvisaglie di tale pericolo si hanno osservando i recenti dati sul gettito Iva che, si badi bene, è un’imposta solo sul consumatore finale ma il gettito si vede mensilmente dai versamenti intermedi degli autonomi e delle imprese. Finora i dati disponibili indicano un ammanco di  Iva (valutato in termini reali) di 5 miliardi se si confronta il gettito raccolto nel periodo gennaio-settembre 2023 con quello dello stesso periodo del 2022. A fronte di un decremento del valore aggiunto (depurato dall’inflazione) dell’1,34 per cento si è registrato un decremento dell’Iva di più del 5 per cento. Se si fa la stessa operazione per redditi da lavoro dipendente, depurando sempre dall’inflazione, questi aumentano dello 0,28 per cento, facendo registrare un aumento dell’Irpef di quasi lo 0,6 per cento: la direzione è esattamente opposta a quella dell’Iva.

Da questi primi dati si evince che, con l’idea che i lavoratori autonomi siano ingiustamente tartassati dal “pizzo di stato”, si incoraggia e legittima l’evasione. L‘extragettito è stata la salvezza dei conti pubblici negli anni scorsi, il mancato gettito potrebbe esserne la condanna d’ora in poi.

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