i rapporti con pechino

L'esposizione delle imprese italiane con la Cina preoccupa Bankitalia

Oscar Giannino

Grandi paesi autoritari condizionano sempre più la produzione, controllando materiali e input di produzione. Bruxelles vuole mettersi al riparo. Ma la via vera è quella della cooperazione dal basso tra filiere industriali europee su progetti strategici 

Tra pandemia, guerre commerciali Usa-Cina, guerre locali, sanzioni verso paesi-canaglia, e grande gara mondiale alla ricerca di una maggiore autonomia e indipendenza sulle tecnologie avanzate, gli ultimi anni ci hanno regalato una pessima novità. Un numero crescente di input di produzione necessari a settori essenziali della manifattura – a parte naturalmente le fonti energetiche – sono divenute vere e proprie armi. Attraverso dazi, divieti di import-export, strategie mondiali monopolistiche nell’estrazione e approvvigionamento di un numero crescente di questi input, grandi paesi – spesso autoritari – condizionano in maniera sempre più rilevante la produzione di beni e servizi nei paesi avanzati. L’Ira statunitense assume questa sfida a livello sistemico. La Cina la persegue da decenni in tre quarti del mondo. L’Europa ha risposto nel 2023 con il Critical Raw Materials Act, per il quale al 2030 almeno il 10 per cento di metalli e terre rare necessari alla Ue deve venire da propria aumentata capacità estrattiva, almeno il 15 per cento da riciclo dei materiali, e per nessuno di essi è tollerabile una dipendenza superiore al 65 per cento da un paese terzo.

 

Realizzare tali obiettivi implica investimenti nell’ordine di molte decine di miliardi di euro, oltre alla marcia indietro rispetto a consolidate prassi per cui avevamo smesso di estrarre e ricercare, fidandoci dell’import. Le manifatture di Italia, Germania e Francia sono molto preoccupate, sia del fenomeno sia della realizzabilità degli investimenti volti a impedire blocchi sistemici come quello che ha interessato tra 2021 e 2022 l’industria dell’auto a corto di microprocessori.

 

Ma l’Italia, come deve muoversi? Una prima buona risposta viene da un occasional paper dieci giorni fa pubblicato sul sito della Banca d’Italia. Sette economisti hanno redatto un puntiglioso lavoro di classificazione partendo dalla survey che Banca d’Italia realizza da anni sulla nostra dipendenza dalla Cina, tendendola poi ai dati granulari dell’Agenzia delle Dogane sul nostro import, come sui dati Cerved per imprese e bilanci. Vengono così identificati, su circa 6.000 beni intermedi non energetici importati,  515 tra essi a rischio di approvvigionamento, e se ne valuta l’effetto sul valore aggiunto delle imprese italiane in caso di possibili forti riduzioni delle importazioni dia paesi a rischio geopolitico.

 

E’ un baedeker analitico che Mimit e governo intero dovrebbero attentamente studiarsi, per affinare strategie di settore e rete d’impresa volte a contenere l’effetto-freno sull’intera economia. Quasi il 15 per cento delle imprese italiane ha dipendenza da input provenienti dalla Cina, nella manifattura oltre il 20 per cento. Un quarto della manifattura italiana, del suo valor aggiunto e occupati, è a forte rischio in caso di crisi negli approvvigionamenti. Per il 70 per cento delle manifatturiere a forte dipendenza da input cinesi, il livello di elasticità a una rapida loro sostituzione è considerato criticamente basso o molto basso, e quasi la metà di esse sembrerebbe non aver intrapreso ancora strategie di diversificazione. Tra i 515 input a rischio, quelli dalla Cina sono ben 194. Sommando alla Cina quelli da paesi comunque ad alto rischio geopolitico, l'impossibilità di sostituirli nel breve periodo comporterebbe una perdita mediana di valore aggiunto, tra le circa 8.000 imprese che li utilizzano, pari a circa il 35 per cento.

  

Il paper classifica inoltre l’esposizione per settore industriale della dipendenza – ovviamente più alto per automotive, chimico-farmaceutica, elettro-ottico e Ict – e la sua diversa concentrazione geografica: più forte nelle Marche e Toscana, poi l’intero Nordest oltre a Lombardia ed Emilia Romagna. Quanto agli effetti nazionali di una stretta di fornitura dei 515 input a rischio, il calo totale di valore aggiunto complessivo a seconda dell’intensità potrebbe essere tra lo 0,2 e il  2,2 per cento. Ma con punte a doppia cifra nei settori più esposti.

 

Sintesi: la granularità di questi dati mostra che entro il 2030 è arduo mettersi al riparo senza strategie di rete e filiera, su cui l’Italia pubblica però non ha molte risorse da metter in campo. La via vera è quella della cooperazione dal basso tra filiere industriali europee su progetti riconosciuti come strategici da Bruxelles. Sempre che alle elezioni europee non vincano gli scassa-tutto anti Ue.

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