Autostrade - Foto Ansa

L'intervista

Altro che treni, l'unica è rendere green le autostrade italiane

Stefano Cingolani

“Non c’è alternativa al traffico su gomma. Ma va reso più sostenibile”. Parla l’amministratore delegato di Aspi, Roberto Tomasi

L’Italia è in ritardo, in grande ritardo rispetto ad altri paesi europei, quindi lo sforzo per rinnovare e potenziare le infrastrutture materiali è enorme; per lungo tempo sono state abbandonate a se stesse, le grandi opere demonizzate e ostacolate, ora sta cambiando la percezione collettiva. Il crollo del ponte Morandi ha segnato uno spartiacque, poi è arrivato il Pnrr e c’è un atteggiamento diverso dei poteri pubblici, nazionali e locali. Roberto Tomasi, amministratore delegato di Aspi (Autostrade per l’Italia) non nasconde nella conversazione con il Foglio che il suo è un compito da far tremare i polsi: la mobilità è e sarà garantita da strade e autostrade, non ci sono alternative nel medio periodo, almeno fino al 2050. Quindi, bisogna colmare il divario e rendere sostenibile la grande rete che consente lo spostamento delle persone, lo scambio delle merci, in ultima istanza la vita economica e sociale. “La spina dorsale del paese” la chiamò Fedele Cova, l’ingegnere che ha realizzato l’Autostrada del Sole, 800 chilometri in otto anni dal 1956 al 1964. E aggiungeva: “Speriamo che rimanga diritta”. 

In Europa – spiega l’ingegner Tomasi – l’Italia è al quarto posto per sviluppo delle autostrade dopo Germania, Francia e Spagna, ma abbiamo un volume di traffico molto più alto, circa il 65 per cento in più rispetto alla media europea, quindi un sistema più piccolo concentra un maggior traffico. Siamo primi anche per complessità in termini di ponti, viadotti e gallerie, cinque-sei volte di più rispetto al resto d’Europa. Se guardiamo alle mappe, vediamo che tra la Liguria, l’autostrada Adriatica e il tratto Bologna-Firenze si concentra la maggior parte delle gallerie. Rispetto al 1995 l’Italia ha investito il 50 per cento in meno della Germania e il 48 in meno della Francia. Negli anni 70 era già sviluppato l’85 per cento della nostra rete, in Germania il 57, siamo stati il primo paese con un vero sistema autostradale, adesso dobbiamo recuperare il terreno perduto. Per Tomasi, bisogna rilanciare lo spirito e l’insegnamento di Cova. E non è il mero auspicio di un ingegnere. “Il prodotto lordo – aggiunge – cresce in proporzione allo sviluppo delle infrastrutture, ma non solo: esse hanno un grande valore sociale. Tutti i paesi evoluti garantiscono anche l’equità sociale attraverso le infrastrutture, al contrario di quel che sostengono certi ambientalisti”.  

L’80 per cento delle aziende è vicino ai caselli autostradali, l’89 per cento degli spostamenti è su gomma, per le merci l’84. Questo sistema è modificabile? “No – risponde Tomasi – Gli altri sistemi servono per esigenze diverse. Inoltre due terzi della popolazione non vive nei grandi centri abitati e ha bisogno dei sistemi di mobilità oggi esistenti”. Allora c’è un pregiudizio contro il trasporto su gomma? “Sì, se guardiamo anche al Pnrr come è stato concepito”. L’amministratore delegato dell’Aspi ci tiene a precisare che non ha nulla contro i treni, e la scelta delle ferrovie è stata fatta  a Bruxelles. “Tuttavia è un principio strutturalmente sbagliato – aggiunge – perché occorre guardare a che cosa genera il benessere del paese, valutare l’infrastruttura attraverso la quale passa la capacità economica e preservare quel bene. Se dovessimo ricostruire il sistema autostradale, di quanto avremmo bisogno? Almeno di 1.200 miliardi di euro. Un valore enorme, ma affinché non si riduca occorre mantenerlo in efficienza. Se vogliamo soppiantarlo dobbiamo avere un’alternativa, non so quale, e non basterebbero nemmeno quei 1.200 miliardi. Gli stessi studi europei sull’incremento dei traffici stradali riconoscono che rimarranno centrali fino al 2050, eppure l’Ue decide di non investire perché il traffico stradale inquina”. È vero, però, che da qui viene gran parte delle emissioni. “Si può decidere di premiare l’ambiente a scapito della crescita economica – ribatte Tomasi – Se però utilizziamo il trasporto su strada è evidente che la maggior parte dei gas serra sarà emessa da quel sistema, non perché inquinante in sé e per sé, ma perché su strade e autostrade passa il maggior numero di attività. Ci sono alternative? No, non ci sono. Il treno non inquina, si dice, ma a due condizioni: se l’energia elettrica è prodotta da rinnovabili e se è effettivamente saturo, attualmente i vagoni sono pieni solo nelle ore di punta. L’amministratore delegato di Treninord mi diceva che la saturazione è appena del 20 per cento”. 

Invece di penalizzare il trasporto su gomma, allora bisogna renderlo green. Secondo Tomasi prima di tutto occorre rendere quel tipo di mobilità più sostenibile. Le merci viaggiano oggi per il 43 per cento su strada e per il 4 per cento su ferrovia, riducendo del 5 per cento l’inquinamento è come mettere su treno il doppio delle merci trasportate. “L’Unione europea prescrive che entro il 2030 vanno ridotte del 43 per cento le emissioni, oggi come oggi non abbiamo le risorse, ma se riuscissimo a centrare l’obiettivo noi da soli avremmo risolto il 90 per cento del problema”. Tomasi mette in primo piano quelli che chiama “sistemi integrati”. In primo luogo bisogna conoscere il traffico, incentivare i comportamenti virtuosi ed efficienti, modulare i pedaggi, applicando tecnologie digitali. Il secondo elemento è la diffusione di mobilità verde. Oggi possiamo utilizzare sostanzialmente le vetture elettriche e il biocarburante per il traffico pesante. La formula riassuntiva può essere: 1/3 elettrico 1/3 biocarburanti e 1/3 comportamenti. “Ma i costi sono fondamentali. Se costa il doppio del diesel, l’elettrico non penetrerà mai – sottolinea Tomasi – Un altro principio sbagliato da parte dell’Europa è non tener conto che una nuova politica ambientale è realizzabile solo se è socialmente ed economicamente sostenibile. La tecnologia deve correre in modo che modalità e livello di servizio restino quanto meno gli stessi”. C’è un eccesso di dirigismo? “Non solo, è dirigismo contraddittorio: se perdo competitività non sarò mai in grado di raggiungere gli obiettivi decisi dall’Ue. Ambiente, competitività, sostenibilità sociale è la triade corretta”, insiste Tomasi, il quale ribadisce che tutti questi ragionamenti lasciano il tempo che trovano se si perde quel patrimonio di 1.200 miliardi.

Ma cosa sta facendo adesso l’Aspi? Il primo obiettivo è ammodernare l’infrastruttura, poi occorre potenziarla. Il traffico ha fatto un balzo dopo la pandemia e crescerà di circa l’1 per cento all’anno in media. “Ci sono alcuni nodi da sciogliere, alcuni tratti da potenziare e da ammodernare. Se no le stesse aziende delocalizzano, è quel che sta già accadendo lungo la dorsale adriatica – spiega Tomasi – Oggi sono saturi 2 mila chilometri su 7 mila, la maggior parte gestiti da Aspi e su questi si concentrano ponti e gallerie. Sono numeri che indicano quel che andava fatto. Potremmo discutere a lungo sul perché si è arrivati a questo punto, ma se vogliamo valorizzare il patrimonio esistente è meglio potenziare quel che già c’è piuttosto che progettare nuove autostrade. La vera eccezione è la Gronda di Genova, fondamentale per evitare che le merci e le autostrade attraversino la città e per dotare il primo porto d’Italia della rete necessaria. È una delle opere ingegneristiche più importanti e complesse mai realizzate in Europa”. Quest’anno è stato speso un miliardo e 700 milioni per la manutenzione e altrettanto l’anno scorso, ora si stanno avviando tutte le grandi opere, dal passante di Bologna agli snodi fiorentini e alla Milano-Lodi. “Nei prossimi mesi apriremo i cantieri con tutte le autorizzazioni – annuncia il capo azienda – Saremo bravi come Cova? Magari. Ma abbiamo maestri che possiamo cercare di inseguire”. 

E le resistenze, la burocrazia, le autorizzazioni, i mille inciampi che finora hanno bloccato le infrastrutture? “Con il governo Meloni e con il ministro Salvini c’è un cambio di velocità – dice Tomasi – Lo si vede dalla progressione degli investimenti. La sensibilità all’ascolto è aumentata, e lo stimolo per aprire i cantieri viene anche dalle regioni, dalle amministrazioni e dalle comunità locali; indipendentemente dal colore politico, c’è volontà di assecondarci”. Ma le regole si sono rinnovate a sufficienza? “Alcune sì, progressivamente, e ci hanno aiutato”. Vanno cambiate anche le concessioni? Per l’ad di Aspi occorre ridefinire il sistema, soprattutto per chi non ha ricevuto i contributi del Pnrr, in un momento storico nel quale c’è bisogno di grandi investimenti subito: “Partiamo dalle esigenze e poi stabiliamo le regole, secondo una visione di medio-lungo periodo e bilanciando la sostenibilità finanziaria e la sostenibilità ambientale. La stessa Ue deve tenere conto che l’Italia ha bisogno di colmare la distanza con gli altri paesi anche per contribuire alle scelte strategiche europee”. Ciò vuol dire un allungamento delle concessioni? “Parlerei di meccanismi per riequilibrare l’investimento in tempi congrui con lo sviluppo della infrastruttura. Le regole debbono consentire che i grandi investimenti siano realizzati senza intaccare il debito pubblico. Occorre essere in grado di sostenere il proprio sviluppo”. Ci sono discussioni in corso, anche per le reti elettriche e tutte le infrastrutture. A questo s’aggiunge l’impatto dei cambiamenti climatici. “In Romagna in 33 ore abbiamo ripristinato la viabilità. E sono state 33 ore drammatiche. Lo stesso in Toscana”. Ciò porta ad aumentare i pedaggi? “Anche in questo caso, chiediamoci qual è la priorità, che cosa serve al paese, poi discutiamo dei mezzi e delle regole. Ma vorrei ricordare che nel costo del viaggio il pedaggio pesa per il 10 per cento. Al primo c’è il combustibile, poi il mezzo e il costo orario della persona”. 
Molto c’è da fare, ma l’ingegner Tomasi sottolinea il clima nuovo. La tragedia di Genova ha aperto gli occhi su che cosa abbiamo bisogno, non solo oggi, ma di qui ai prossimi 50 anni. “C’è stata una rivoluzione nella visione strategica. Noi tutti diamo spesso per scontata l’infrastruttura e non comprendiamo come sia complesso realizzarla. Quanto al ponte Morandi l’errore più grande è credere che sia crollato perché non è stata fatta la manutenzione nell’ultimo anno, in realtà si era perso il controllo dell’infrastruttura e oggi lo abbiamo ripreso”. 

La nostra conversazione è finita, ma arriva l’indiscrezione che si sta discutendo di rivedere l’assetto proprietario dell’Aspi, oggi controllata in maggioranza dalla Cdp con il 51 per cento, il resto è diviso tra i fondi Blackstone e Macquarie. Secondo un progetto della JP Morgan entrerebbe Gavio al posto di Macquarie. Uno scenario smentito da Blackstone, che sostiene di voler continuare a investire in Italia “per decenni”. Secondo Tomasi, “il fatto che continuino a circolare questi scenari denota il valore della nostra azienda che torna a essere protagonista del panorama nazionale, grazie a una compagine di gruppo sempre più solida, dall’ingegneria alle costruzioni fino alle nuove tecnologie. Per quanto ci riguarda, noi continuiamo a lavorare”. 

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