Finanziaria piccina

Per invertire la tendenza di bassa crescita e debito crescente serve più coraggio

Paolo Cirino Pomicino

Dal 1994 il nostro paese è cresciuto in media dello 0,8 per cento l'anno. Anche la manovra del governo Meloni è esattamente uguale a quella degli ultimi 25 anni

Volendo dare un giudizio sintetico sulla manovra economica in discussione al Senato dovremmo rubare qualche titolo alle fiabe, dicendo con chiarezza che l’attuale Finanziaria è una manovra piccina, piccina, picciò e per giunta anche provvisoria. Per quest’ultimo aspetto c’è una sorta di creatività mefistofelica perché non ricordiamo un precedente come la riduzione del cosiddetto cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti sino a 35 mila euro l’anno che vale… un solo anno! La cruda verità, però, forse è un’altra ed è ancora più drammatica perché coinvolge l’intero sistema politico. La Finanziaria di quest’anno è uguale a quella dell’anno precedente e a quelle degli ultimi 25 anni a prescindere del governo di turno ed è altrettanto uguale a quella che leggeremo il prossimo anno. Certo, in qualcuna c’è stato il botto di un incentivo per la prima volta superiore al costo dell’intervento (il famoso Superbonus del 110 per cento per le facciate di un gruppetto di palazzi e di villette) in altre, come l’attuale, un colpo basso alle donne e ai bambini con l’aumento dell’Iva sui pannolini e sugli assorbenti oltre alla già citata provvisorietà. Ognuno lasciava una sua piccola orma ma la struttura della legge di Bilancio da oltre 20 anni è la medesima. Un po’ di deficit in più (salvo il biennio della pandemia dove i ristori per famiglie e imprese hanno sfondato debito e deficit), un po’ di piccoli bonus qua e là in sostituzioni di politiche settoriali ancora allo studio, qualche banale intervento di tipo ambientale, puntualmente rimasto sulla carta e ben lontano dagli accordi internazionali sul clima e sulle emissioni di CO2 e via di questo passo.

È così che dal 1994 l’Italia è cresciuta in media dello 0,8 per cento l’anno ed è così che il mezzogiorno ha perso 500 mila posti di lavoro rispetto al 1992 (dati Svimez), le disuguaglianze reddituali sono crescite in maniera intollerabili e i salari hanno perso quasi l’8 per cento del potere di acquisto lasciando così crescere quella triste novità del lavoro povero. Per non parlare dell’avvio della riforma fiscale nella quale pur essendoci qualche “ideuzza” campeggia la riduzione di una aliquota Irpef che in parole povere offre un risparmio fiscale di alcune centinaia di euro a quanti guadagnano tra i 21 mila e i 28 mila euro l’anno mentre la parte più debole della società (quelli fino  a 18 mila euro l’anno) tanto pagavano e tanto pagheranno. 

Noi siamo sempre persi dal dubbio ogni qualvolta scriviamo o parliamo ma vorremmo capire il prossimo anno, ad esempio, dove prenderemo i soldi per confermare la riduzione di 11 mila euro del cuneo fiscale visto che la crescita continuerà a essere quella che da quasi trent’anni ci deprime e ci impoverisce nel mentre all’orizzonte non si intravede alcun risparmio di spesa. 

Noi più di ogni altro sappiamo l’angoscia dei ministri finanziari ma sappiamo anche che c’è bisogno del coraggio per invertire una tendenza che dura da tre decenni di bassa crescita economica e di debito crescente che a oggi ci fa pagare quasi 100 miliardi di spesa per interessi. Da anni spieghiamo che per invertire questa tendenza c’è bisogno di una grande manovra straordinaria di finanza pubblica senza immaginare patrimoniali inconsistenti ma, al contrario, perseguendo una intesa con la grande ricchezza nazionale. Politica e coraggio sono gli ingredienti necessari al paese. All’epoca ricevemmo in eredità un bilancio con 38 mila miliardi di lire di disavanzo primario e lo restituimmo tre anni dopo a Giuliano Amato presidente del Consiglio con un avanzo primario di 3 mila miliardi nonostante i tassi di interesse a due cifre (chi vuole verificare domandi a Draghi) e continuando ad avere una crescita che nel 1991 era dell’1,4 per cento. 

Lo ricordiamo solo per sollecitare un colpo d’ala di tutti i partiti che hanno smarrito ogni riferimento culturale e ogni assetto democratico al proprio interno e quindi inevitabilmente privi di visione. Se a tutto questo si aggiunge che nazionalizziamo le autostrade e vendiamo un asset strategico come la rete fissa della Tim, diventa pressoché impossibile immaginare un futuro politico ed economico all’altezza della storia della nostra Repubblica.  

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