conti che non tornano

La maggioranza sabota Meloni sulla manovra “inemendabile”

Luciano Capone

Gli emendamenti al dl Anticipi di FdI, FI e Lega sono 287 su 947 totali. Giorgetti non riesce far capire ai partiti la criticità del contesto internazionale. La distanza siderale tra governo e forze parlamentari è il vero problema politico dell'Italia

Giorgia Meloni aveva blindato la manovra: “Nessun emendamento della maggioranza”. Era il 16 ottobre. C’era stata anche la parola del vicepremier Matteo Salvini: “Siamo soddisfatti, sarà una manovra senza emendamenti di maggioranza”. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, era stato meno categorico: “Apprezzerei moltissimo che i parlamentari della maggioranza apprezzassero il lavoro fatto e che quindi evitassero di presentare emendamenti”.

 

Il patto durò qualche ora, tanto che i giorni successivi il governo li passò a emendare la manovra inemendabile, a partire dal capitolo pensioni. Poi il 30 ottobre il testo approvato dal governo venne di nuovo blindato. Al termine di una riunione a Palazzo Chigi, “le forze di maggioranza” confermarono solennemente “la volontà di procedere speditamente all’approvazione della legge di Bilancio, senza pertanto presentare emendamenti”. Nemmeno uno.

 

Alla fine gli emendamenti dei partiti di maggioranza al dl Anticipi, collegato alla manovra, sono 287 (più 10 ordini del giorno) su 947 totali, praticamente uno su tre. Chi nel centrodestra ha presentato più emendamenti è proprio il partito del ministro dell’Economia, la Lega guidata dal vicepremier Salvini: 122. Poi ci sono i Fratelli d’Italia della premier Meloni con 91 emendamenti. A seguire Forza Italia, il partito del vicepremier Antonio Tajani, con 69 emendamenti. Infine Noi moderati con 5 emendamenti. Praticamente non c’è argomento dell’inemendabile legge di Bilancio, dalle pensioni al Superbonus, che i parlamentari non vogliano emendare.

 

Nulla di grave in sé, tanto più che quella dei parlamentari è una prerogativa costituzionale, come lo stesso ministro dell’Economia ha sempre riconosciuto. Il vero problema politico della maggioranza è questa distanza siderale tra governo e forze parlamentari, tanto più in una situazione in cui i vertici del governo sono anche i leader dei rispettivi partiti. È come se Meloni e Giorgetti, che in questi mesi hanno lavorato insieme alla definizione dei contorni e dei paletti della legge di Bilancio, non siano per nulla riusciti a trasferire il senso della manovra al resto del governo e soprattutto alle forze parlamentari. Se da un lato il governo ha usato tutti i margini possibili e anche qualcosa di più, gonfiando un pochino le stime di crescita e prevedendo un enorme piano di privatizzazioni da 20 miliardi per presentare al mondo un debito pubblico che non aumenta, i partiti di maggioranza con lo sguardo rivolto alle elezioni europee pensano che questa sia una manovra di “austerity” e si battono per cambiarla quasi quanto le opposizioni.

 

Giorgetti è quasi tormentato da un contesto globale molto complicato: la guerra in Ucraina e ora anche nella striscia di Gaza, la Germania in recessione, la Cina che fatica a ripartire, il prezzo del gas che si mantiene su livelli elevati, il braccio di ferro in Europa sulle regole fiscali, la spesa per interessi che sale... A settembre aveva detto di temere “le valutazioni dei mercati”, più del giudizio di Bruxelles. E per questo ha passato gli ultimi mesi a rassicurare i mercati, i partner europei, gli investitori internazionali e le agenzie di rating sulla serietà della politica di bilancio dell’Italia. Dopo i colpi di sole estivi, il Mef ha annacquato la tassa sugli extraprofitti delle banche e ha anche escluso interventi sul mercato degli Npl che, improvvidamente, erano stati annunciati da qualche ministro troppo loquace. Poi Giorgetti, per strappare aperture di credito sulla modifica delle regole europee e mostrare un quadro macroeconomico che regge alle agenzie che devono aggiornare il rating sull’Italia, ha rivendicato interventi radicali come quelli sulle pensioni e sul Superbonus (misura che sconcerta chiunque fuori dai confini italiani).

 

Ma di tutto questo difficile contesto politico ed economico la maggioranza non sembra avere consapevolezza, tanto che mentre Giorgetti è all’Ecofin propone proroghe del Superbonus e modifiche sulle pensioni. Stessa dinamica sul Mes: a Bruxelles il governo fa capire che la ratifica ci sarà, a Roma i partiti di maggioranza non ci pensano proprio. L’Europa e gli investitori hanno dato credito agli impegni del governo, ma aspettano l’Italia alla prova dei fatti.

 

Se il Parlamento cambia in maniera sostanziale la legge di Bilancio, quel minimo di credibilità acquisita dall’Italia sui mercati e in Europa svanirà rapidamente. E sarebbe un problema enorme per il governo e per il paese. Sembra quasi che Meloni e Giorgetti, che pure si fanno capire all’estero, non siano in grado di trasferire questo semplice concetto in patria, ai partiti che li sostengono con 287 emendamenti.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali